Ripercorrere per la
seconda volta nello stesso giorno il tragitto del 105 non era una
cosa abituale per te. Giardinetti, Centocelle, Torpignattara, un'ora
di semafori, di macchine di traverso, di strade troppo strette e
persone troppo incazzate. Ripercorrere per due volte nello stesso
giorno quel percorso significava avere qualcos'altro da fare in città
oltre al lavoro, il solo lavoro che eri riuscita ad ottenere dopo
mesi di ricerca e che la tua laurea in ingegneria meccanica era
riuscita a darti in Italia, cioè donna delle pulizie, anzi la
signora che rifà i letti, perché così
il concierge non aveva l'impressione di sporcarsi la bocca con quelle
parole che parlavano di te.
Ripercorrere per la
seconda volta nello stesso giorno il tragitto che ti portava dal
quartiere al centro di Roma significava avere qualcos'altro da fare
in città oltre a pulire le stanze di un hotel di lusso sporche degli
stessi liquidi e delle stesse secrezioni di qualsiasi altro hotel, in
cambio di tre euro all'ora, delle avances di quel congierge che aveva
passato i due terzi della sua vita in réception e di nessun
contratto. In città, ci avevi portato qualche volta i tuoi figli,
con un pallone e un passeggino, a Villa Borghese, passando dall'hotel
per non perderti, ma dopo che ti eri fatta fermare da quel
carabiniere e ti eri sentita gli occhi di tutti puntati addosso non
ti sentivi a tuo agio e preferivi restare nel quartiere.
Erano pochi i motivi per
cui si andava in città, a parte un cattivo lavoro in ambienti di
lusso. E se non si andava a lavoro, o si andava a Termini oppure
c'erano rogne. Mentre il 105 tagliava in direzione della Prenestina
sul Ponte Casilino, pensavi da una parte che i ragazzi del Circolo
degli Artisti non ti avevano più chiamata per dare una passata ai
vespasiani la domenica mattina, dio santo che puzza, e dall'altra
che, nel tuo caso, erano rogne. E pensavi anche che, questa volta, te
l'eri meritate.
Mentre il mezzo sul quale
viaggiavi ti avvicinava, per la seconda volta nello stesso giorno,
alle mura aureliane, ripensavi al discorso che ti eri preparata, alla
scaletta, a quelle tre o quattro frasi e parole chiave che ti
sembravano convincenti, da dire davanti a quelle persone, dio sa in
quanti ti aspettavano; macché aspettare, chissà se si
presenteranno.
E mentre cercavi di
riflettere al futuro prossimo, imminente, il ricordo di qualche
giorno fa, quando ti sei cacciata in quel pasticcio e non hai saputo
tenere la bocca chiusa, è ancora fresco. Ti mordi la lingua e ti
dici che è la prima e l'ultima volta che ti prenderai questa
responsabilità e che se dovesse andare male, meglio cosi': non ci
sarà più da tornarci, in città. Se non per lavoro.
Ti mordi ancora la lingua
e pensi che, tutto sommato, è una buona occasione quella che ti si
presenta e che dovresti sfruttarla, per il bene di tutti. Pensi anche
che potrebbe essere una trappola, di quel consigliere, quel giovane
di cui non ti sei mai fidata, che è venuto a parlare nel quartiere
qualche settimana fa e per colpa del quale ti sei cacciata in questa
situazione. L'avvocato delle cause perse, te l'ha detto tuo marito,
ti sei messa a fare l'avvocato delle cause perse, come se non ne
avessimo già abbastanza.
Non ti sei mai fidata di
quel ragazzo, e fai bene, ti direi io. Uno che va da gente che non
puo' votarlo, o è un fesso, o ha secondi fini.
Ma quando i ragazzi di
quel centro sociale in fondo alla strada, la stessa lunga strada
lungo la quale si trova il casermone in cui un ufficio del comune ti
ha assegnato un alloggio popolare, a 12 km e un'ora mezza dal centro,
cioè dal tuo posto di lavoro, e in cui vivi da non sai più quante
manciate di anni, abbastanza per aver ripulito il tuo italiano da
qualsiasi accento sgradevole alle orecchie del concierge e qualche
migliaio di cessi sparsi tra piazza Fiume e Circo Massimo, i ragazzi
del centro sociale hanno organizzato un'assemblea di quartiere e te
l'hanno fatto sapere tramite un volantinaggio selvaggio in tutte le
cassette della posta e un attacchinaggio che puzza di colla a tutte
le fermate degli autobus, compresa quella dove scendi ogni giorno di
ritorno dall'hotel a cinque stelle dove di mestiere fai la signora
che rifà i letti. Fai una telefonata a tuo marito per dirgli di
scaldare quel paio di avanzi dell'Aid che trova in frigo, sul secondo
ripiano dal basso, in fondo a sinistra, stanno lì
da due giorni, bisogna mangiarli comunque, e gli spieghi che avresti
fatto un salto all'assemblea, per vedere, sentire, sì,
insomma, sapere cosa si dice.
Visto l'attacchinaggio e
il volantinaggio, t'aspettavi un'affluenza più numerosa e invece in
quello stanzone non c'è maniera di passare inosservati. E meno male,
perché lo stanzone non sarebbe mai stato abbastanza grande se
soltanto un'ala intera del casermone in cui abiti fosse andata
all'assemblea.
Se soltanto ci fossero
stati più partecipanti, ti dici a bordo del tuo 105 con i cui sedili
hai ormai familiarizzato, avresti forse avuto qualche possibilità in
meno di intervenire e qualcuna in più di startene in silenzio. Come
tuo marito ti rimproverava di non aver fatto. Così,
quando quel giovinotto dai capelli biondi, il jeans strappato e gli
occhiali vi spiegava (parlando in un italiano storpiato, adattato a
voi stranieri, tanto che a un certo punto hai pensato che fosse un
po' dislessico) che c'era la maniera di far sentire la propria voce
in comune, che c'era un'iniziativa dell'opposizione, accettata dalla
maggioranza, di aprire le “consultazioni di quartiere”, una sorta
di organo consultivo in cui i cittadini prendevano la parola per
spiegare i problemi del proprio quartiere, fare richieste, lamentele,
proposte, e cosi' via.
Appena uscita
dall'assemblea, ti sei detta che questi organi consultivi non servono
mai a nulla, sono dei finti eventi politici che guadagnano un paio di
colonne sui giornali locali un paio di volte alla settimana e un paio
di virgolettati per qualche candidato, e che tutto si risolve in un
insieme di cartastraccia senza seguito. Ti dici anche gli altri
l'avevano già capito e avevano fatto bene a disinteressarsi della
cosa, a dire che era ora di tornarsene a casa dopo un giorno di
lavoro. Ti dici anche che non avresti dovuto essere così
caparbia nel dire che almeno una volta, almeno quella volta che la
parola ci veniva data, per la prima volta, dopo che il loro quartiere
era conosciuto solo per i tunisini che spacciano, per i rumeni che
stuprano, per le donne che non si tolgono il velo, per i senegalesi
che s'incazzano per i permessi di soggiorno, per questo o per
quest'altro che scrivono ogni giorno i giornali su di noi senza
essere mai venuti a chiederci cosa ne pensassimo; almeno una volta,
questa volta che il nostro avviso veniva chiesto e che questo ragazzo
di un qualche partito di sinistra che vi trattava bonariamente come
dei deficienti temendo che non capiste né la lingua italiana né la
democrazia (o qualcosa che ci si avvicina ogni giorno di meno in
questo paese), almeno questa volta non bisognava scomparire come ogni
giorno fanno gli immigrati in questo paese e che bisognava
presenziare, rappresentare.
Ed essendo l'unica di
questo parere, tutti concordarono in plebiscito che la rappresentante
dovessi essere tu, ad andare e portare il loro avviso, senza che
nessuno te l'avesse dato. A rappresentare tutti, senza che nessuno ti
chiedesse di essere rappresentato.
Mentre arrivavi a
Termini, ripetevi il discorso a memoria, come concordato con i
ragazzi del centro sociale. Le due tre frasi convincenti, e le
parole, che ti eri preparata erano ben fisse nella memoria. Cercavi
di immaginare le facce delle persone che ti avrebbero ascoltato e te
le immaginavi tutte come quella del concierge, cioè gonfie.
Immaginavi, o forse me li sto immaginando io, la faccia di tutti
quegli uomini: il segretario del consiglio comunale, qualche
consigliere e una manciata di tecnici, più una troupe di giornalisti
di un paio di agenzie e qualche testata, insomma, la faccia di tutti
quegli uomini guardarti perplessi, non sapendo come prenderti.
Cercando il nuovo autobus
hai controllato che la tua borsa fosse ancora chiusa e che la camicia
stesse composta sotto la cintola dei pantaloni. Controlli come sei
vestita per l'ennesima volta, anche ora che non puoi più cambiarti,
e ripensi a quel giorno durante il tuo primo mese di lavoro, quando
il concierge dalla faccia gonfia e sudata ti ha chiesto perché non
ti mettevi il velo, Mara, perché non te lo metti il velo. Ti eri
ormai abituata al nuovo nome che a Roma ti avevano affibiato perché
erano troppo pigri per chiamarti come si deve, Rahma, senza invertire
le sillabe (non dico metterci pure un'acca aspirata). Ti eri ormai
abituata a tante cose, come il 105, ma quella domanda sul velo non
l'avevi capita e non avevi risposto. Ma te ne saresti resa conto
presto, cara Rahma, che gli italiani si aspettano da una donna
marocchina (e l'equazione dice: quindi araba, quindi musulmana) che
sia fedele, casalinga, sottomessa e col velo. E vaglielo a spiegare
che le donne della tua famiglia, da generazioni, portavano i capelli
sciolti, senza foulard, turbanti, cappelli, cappucci o altri
copricapo d'ogni tipo.
Vaglielo a spiegare,
vaglielo a spiegare, Rahma. Vaglielo a spiegare a questi uomini che
non sanno neanche ascoltare le donne con cui si vedono da anni tutti
i giorni. Vaglielo a spiegare a questi uomini che non sanno
ascoltare. Vaglielo a spiegare a questi uomini che non hanno mai
abbandonato la propria réception per paura di cambiare idea e di
cambiare se stessi.
Ma sto parlando io,
Rahma. Sto parlando ancora io, Rahma.