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domenica 17 novembre 2013

Appunti messicani: El Zócalo , i murales e lo spazio pubblico (parte seconda)


Come dicevo nel post precedente, l'impressione che ho avuto durante il mio viaggio in Messico è di uno spazio pubblico abitato da una società civile vivace; più o meno il contrario di quello che accade in Europa, dove degli spazi pubblici sempre più ristretti sono disertati da una società sempre più atomizzata. Ora voglio concentrarmi su uno degli aspetti di questa forte “pubblicità” (la parola qui è usata nel suo senso inabituale): la pittura murale.
I murales
Già, perché una delle cose che colpisce di più del Messico (e, credo, dell'America latina in generale) è la forte presenza di pitture murali, elemento che caratterizza il paesaggio urbano come quello rurale. Infatti, in Messico la pittura murale è uno dei mezzi di comunicazione più comuni. È forse più frequente trovare insegne di negozi o studi medici sotto forma di murales che “insegne” come le intendiamo noi, cioè pannelli o cartelloni con scritte sopra. Eccone qualcuna che ho fotografato:


Ma i murales servono anche ad altro, per esempio ad annunciare un concerto:

Oppure a fare della pubblicità (nel senso abituale):

Per decorare la parete di una libreria:


O, ancora, per fare campagna elettorale e comunicazione politica:

 

O, addirittura, minacce:


E ne ho visto addirittura uno di murales, in un piccolo paesino, che fungeva da “pubblicità progresso” per sensibilizzare le donne su alcune questioni della gravidanza. Ma era l'alba, eravamo stanchi e ho dimenticato di fotografarlo. Désolé.
Chiunque passi qualche giorno in Messico sarà confrontato numerosissime volte a questo tipo di murales. Potrà anche notare, in filigrana, dietro la pittura, i vecchi strati di colore, i vecchi annunci, ricoperti e sostituiti dai nuovi. Insomma, il murales è uno dei mezzi di comunicazione principali.
La cosa mi ha molto colpito, perché mette in questione la proprietà del muro. Un murales non è come un pannello pubblicitario installato con strutture in ferro e bulloni. Un murales è pittura stesa direttamente sulla calce. Penetra nel muro. Il muro, che serve a delimitare uno spazio privato dal resto del mondo, assume così un'altra funzione, che è quella di rendere pubbliche alcune informazioni. Il muro, strumento principale di separazione, si carica in realtà di un aspetto pubblico.
In realtà, la cosa non sarebbe molto interessante di per sé. Anzi, il mio discorso corre il rischio (molto etnocentrico) di idealizzare (a sinistra) una pratica culturale del, come si diceva una volta, “Terzo Mondo”. Del tipo: “Guardate, in Messico i muri sono di tutti!” Cazzate. Anche perché, come l'abbiamo visto, i fratelli Cola non hanno molte difficoltà ad appropriarsi di questa pratica per fare altro (nella fattispecie: del capitalismo!).
L'arte dei muralistas
In realtà, questo discorso sull'uso comune dei murales rivela tutto il suo interesse nel momento in cui lo si mette in relazione con un pezzo di arte messicana, dove si ritrova la pratica della pittura murale strettamente connessa allo spazio pubblico. Si tratta dei numerosi pittori e pittrici di murales che la storia dell'arte messicana ha conosciuto.
Sia chiaro: questo post non sta per diventare una dissertazione sull'arte visiva messicana. (Ne sarei incapace, visto che fino al mio arrivo in Messico non conoscevo altro che i nomi di Diego Rivera e Frida Kahlo e nessuno dei loro dipinti; ah, in quanto segue non parlerò neanche di Frida Kahlo). Piuttosto, vorrei mettere in evidenza, a partire da quanto ho visto io con i miei occhi a Città del Messico, due dimensioni di questa pittura: il carattere politico-rivoluzionario; e il carattere politico-istituzionale. [Ed ecco che, senza volerlo, faccio il verso al partito al potere in Messico: il Partito Rivoluzionario Istituzionale.] Insomma, piuttosto che di arte in senso stretto, qui proverò a fare una riflessione (di sinistra) sull'arte e la politica, due campi che sono in verità intrinsecamente legati.
Arte politico-rivoluzionaria
A Città del Messico ho visto alcuni dei murales dei cosiddetti tres grandes, i tre grandi muralisti del Novecento: Diego Rivera (1886-1957), David Alfaro Siqueiros (1896-1974) e José Clemente Orozco (1883-1949). Rivera, Orozco e Siqueiros, molto differenti l'uno dall'altro, sono i tre pittori della Nazione messicana post-rivoluzionaria. E sono pittori comunisti: non solo per il tema politico della loro opera, per lo stile moderno e espressionista della loro pittura. Ma soprattutto per il loro supporto: il muro. Questa è una pittura che parla al popolo e che chiama all'azione. La critica e la rivoluzione.
Basti guardare questo quadro di Rivera:
Diego Rivera, El hombre en el cruce de caminos o El hombre controlador del universo, 1934, potete trovarlo nel Palacio de Bellas Artes di Città del Messico.

L'uomo si trova al centro dell'universo, in una visione estremamente progressista, e da questa posizione deve scegliere quale strada seguire verso il progresso. Da una parte, c'è il capitalismo, con le sue guerre e la sua società borghese ben composta mentre la polizia (sullo sfondo) reprime le lotte sociali; dall'altra, c'è il comunismo (e Lenin), che rappresenta il proletariato e la via all'emancipazione dell'umanità. Cosa scegliamo? [Anacronismi... o no?]
Pensare che questo murale l'aveva commissionato Rockefeller per la sede della sua impresa, ma dopo averlo visto lo distrusse. Il pittore ne realizzò un altro, che è quello che si trova al terzo piano del Palacio de Bellas Artes di Città del Messico. A parte la provocazione al cuore del capitalismo mondiale, è interessante il carattere manifestamente politico del dipinto che è trasmesso senza nessuna mediazione allo spettatore.
Meno diretto, più espressionista, ma non meno politico è Siqueiros. Nel trittico Nueva democracia (1944-45), si celebra la sconfitta del fascismo e si inneggia alla libertà. Degli uomini sconfitti e avviliti simboleggiano le vittime della guerra e dei totalitarismi; mentre la forza della donna che esce da un vulcano impugnando la fiaccola della libertà è estremamente potente e vivificatrice, è portatrice di azione e inneggia alla lotta. Per non parlare delle sue tette (un'eredità del cubismo?):

Siqueiros, Nueva democracia, trittico composto da: Victimas de la guerra (in alto a sinistra), Victima del fascismo (in alto a destra), México por la Democracia y la Independencia (in basso), 1944-45, anche questo al Palacio de Bellas Artes.

Ancora, un altro murale fortemente critico è quello di Orozco, intitolato Katharsis (uno dei miei preferiti). Eccolo qui:

Orozco, Katharsis, 1934-35, al Palacio de Bellas Artes.

Armi, coltelli, fucili, tecnologia, delle prostitute (ridenti?), una testa sofferente, visi straziati dal trattamento espressionista, colori violenti, osati, uno sfondo di fiamme: una visione distopica di un mondo in disintegrazione, in cui la tecnologia sta violentando un uomo che annega nella massificazione sociale. Non ti turba?
Ed ecco l'idea orozchiana di elemosina:
Orozco, El alcancìa, uno dei murales del Colegio di San Ildefonso. Moltissimi sono i murales di Orozco sulle pareti dell'antico collegio, tutti politici.

Lontana dall'essere un reperto storico o museale, la pittura murale è tuttora il luogo di una critica sociale e politica. Lo testimonia questo murale, che si trova dietro l'Universidad de Sor Juana e che è statorealizzato non so da chi:

Un'arte politico-istituzionale
Ma quando si dice politica, si dice soprattutto costruzione politica, sociale, culturale e istituzionale. Il Messico post-rivoluzionario è un importante momento di (ri-)costruzione di un'identità nazionale. L'imperativo è rifiutare il modello dittatoriale francofilo (accentratore ed omologatore) imposto da Porfirio Diaz, quindi dare voce al popolo e, in particolare, alle differenti componenti del popolo, tra cui quelle più dominate, come gli indios. Serve una grande pittura, pubblica, che parli a tutti, che sia capace di riscostruire un sentimento d'appartenenza nazionale. Ed è per questo che la pittura de los tres grandes non è unicamente politico-rivoluzionaria, ma anche politico-istituzionale. È un'arte del popolo, ma il popolo (nell'ideale nazionale moderno, che non riguarda solo quello che chiamiamo “Occidente”) si identifica nello Stato-Nazione. Nel Novecento, in Messico, l'arte è il fulcro della costituzione identitaria di questo Stato-Nazione post-rivoluzionario.
I legami tra i tre pittori e le istituzioni non sono infatti deboli. I tre hanno ricevuto delle commissioni dallo Stato, ciò che da una parte gli ha permesso di sviluppare con ampi mezzi la loro tecnica, obbligandoli tuttavia a dialogare con un'altra dimensione della politica, del “pubblico”: non quella popolare, critico-rivoluzionaria, ma quella del potere statale. Qual è il confine tra le due?
La pratica artistica di Rivera è forse quella che più mette in evidenza questa contraddizione. È lui che ha dipinto i muri del Palacio Nacional rappresentandovi la storia del Messico, dall'epoca pre-colombiana ad oggi. Purtroppo non ho potuto vedere questi murales: il palazzo era chiuso come misura preventiva visti gli scioperi... Ma ecco comunque una foto di un pezzettino di questi, a quanto pare, enormi e magnifici murales:

Probabilmente Rivera, tra i tre, è quello che di più ha riflettuto a questo sentimento di appartenenza nazionale.
Letta in controluce e in comparazione con quello che succede da ormai oltre un secolo in questa nostra vecchia Europa, l'esperienza dei tra muralisti ci dice molto. Prima di tutto, ci ricorda che l'arte ha il dovere di parlare al popolo, dovere che troppo spesso gli artisti qui dimenticano, intrappolati nella loro arte autorefernziale, autoriflessiva sulla propria artisticità, sul proprio sogno di arte in sé, più o meno confessato. Intrappolati nella loro artecrazia.
L'arte deve essere pubblica, popolare, ci dicono los tres grandes.
Al tempo stesso, il legame tra i muralisti e la committenza statale finalizzata alla costruzione di un sentimento nazionale mette in luce i limiti potenziali dello “spazio pubblico”, quando questo diventa uno strumento del potere.
Infatti, lo “spazio pubblico”, che è stato il vero oggetto di questi appunti messicani, ha diverse coniugazioni. Il pubblico come partecipativo e popolare, ma anche il pubblico come emanazione di istituzioni rappresentative. Lo spazio pubblico tra democrazia e potere.
In Europa stiamo vivendo un momento in cui entrambe le declinazioni del pubblico, della politica (quella partecipative e quella istituzionale) sono in profonda crisi. Il loro peso nella società e nelle scelte che strutturano il continente è nullo. Da oltre trent'anni, il paradigma neoliberista per cui la società non esiste impera e ottiene i suoi frutti: la distruzione della società civile per far crollare la democrazia, la partecipazione del popolo al governo degli Stati.
Lo spazio pubblico, la società civile, la democrazia
Lo spazio pubblico messicano è vivo, molto più vivo di quello europeo e un'esperienza così forte come quella dei muralisti ne è la testimonianza. Eppure, la democrazia messicana, secondo i nostri canoni, ha l'aria di non funzionare molto bene: il PRI è eletto da oltre ottant'anni, a parte una breve (e recente) parentesi.
Nonostante le elezioni, senza alternanza non c'è democrazia. Eppure, la società civile messicana è viva e, chissà, forse riesce ad influenzare le decisioni governative molto più di quanto non lo faccia quella europea, il cui ruolo politico è ormai ridotto alla delega del potere ad una classe dirigente scollata dalla realtà, delinquente e sfruttatrice.
Lo spazio pubblico messicano ci mostra due cose: più superficialmente, in controluce, che la società civile europea è smorta; e poi che, più profondamente, la categoria europea di “democrazia” è da rimettere in discussione: questa, quando si limita alla sua natura (pseudo-)rappresentativa, non è l'espressione delle istanze di una società civile che partecipa concretamente al potere; può darsi che un governo non democratico dipenda dalla volontà popolare molto più direttamente di quanto non lo faccia un governo democratico, soprattutto in questa fase moribonda e degenerata della democrazia europea. Ecco qual è l'insegnamento che il Messico mi ha dato: che non c'è democrazia senza società civile.
E qui, in realtà, il Messico c'entra ben poco. Perché non è tanto del Messico che si è parlato in questi due post di appunti messicani, quanto dell'Europa.

PS: Non avrei mai potuto scrivere questo post senza le chiacchierate con tutte le persone che ho incontrato durante il mio viaggio in Messico. In particolare, grazie a: Amael (e la sua famiglia), Alvaro, Cristina, Delphine, Martin, Michael, Roberta, Tanquy.

domenica 10 novembre 2013

Appunti messicani: El Zócalo , i murales e lo spazio pubblico (parte prima)


Oltre un anno fa visitavo la città di Arezzo e rimasi stupito dal numero di piazze e piazzette presenti in città. Mi dissi anche che lo sviluppo delle città toscane durante il Basso Medioevo doveva essere legato in qualche modo a questo spazio, la piazza, che permetteva alle persone di realizzare delle attività sociali (dal lavoro al loisir) insieme, in comunità.
Ultimamente sono stato in Messico e il tema della piazza come spazio pubblico mi ha interrogato di nuovo, sin dal primo giorno trascorso nella capitale, il DF, come la chiamano i messicani. Il cuore politico e culturale della città e della repubblica messicana si trova nel Zócalo, la terza piazza più grande del mondo, circondata dal Palacio del Gobierno, dal Palacio Nacional e dalla Catedral. Questo spazio è intimamente legato all'identità del paese. El Zócalo è il simbolo del Messico e del popolo messicano e – la cosa più interessante – in quanto tale appartiene al popolo, alla gente. Certo, sui lati ci sono le istituzioni, temporali e spirituali, ma la piazza appartiene al popolo.
La piazza come oggetto di lotta
Ed è per questo carattere simbolico che El Zócalo si trova oggi al centro di conflitti e contese. Infatti, i messicani si stanno mobilitando fortemente in questo periodo. Il partito al potere (Partito Rivoluzionario Istituzionale – PRI; pardon per l'ossimoro) sta infatti varando alcune importanti riforme come quella sulla liberalizzazione delle fonti energetiche (il petrolio dovrebbe passare dalle mani dello Stato a quelle dei privati, da quanto ho capito) o come quella del sistema educativo (che anche si ispira alle più recenti riforme europee di spirito neoliberista). Ma i messicani non ci stanno e los maestros in particolare hanno deciso di protestare e mettersi in sciopero da ben tre mesi (italiano medio, rileggi bene quest'ultima frase: tre mesi, non tre ore). E ovviamente il centro dalla protesta era El Zócalo, occupato. La cosa ha piccato il governo che non si è fatto troppi problemi ad usare le maniere forti. Botte, botte, botte. Di quelle che fanno male. Dandogliele e dandogliele hanno cacciato i maestri dalla piazza (parliamo dei mesi di settembre-ottobre).
Intanto degli uragani stavano per portare la catastrofe sulle coste messicane, ma il governo, intento a reprimere e reprimere, si è – come dire – distratto, sottovalutando i rischi e dimenticando di mettere in atto delle strategie di prevenzione dei danni, che sono stati enormi. Vista la catastrofe, un grande movimento di solidarietà ha attraversato la nazione e il governo ne ha approfittato con una nuova idea: El Zócalo sarà il centro di questa solidarietà e la base per la raccolta di indumenti, viveri eccetera per le popolaizoni colpite dal cataclisma. Per los maestros, evidentemente, non c'è più posto.
Il governo ha riconquistato così la piazza, momentaneamente. Infatti, nel Zócalo era previsto anche un altro evento, la Feria del Libro. Per paura di mollare l'osso, il PRI ha deciso di annullare la Feria per lasciar spazio alla raccolta. Mica male l'idea, che vorrebbe mettere in scacco los maestreos: voler riconquistare El Zócalo avrebbe significato contrastare l'opera di beneficienza messa in atto dal governo.
La voce degli scrittori messicani, come quella di Paco Ignacio Taibo II, si è alzata per dirgliene quattro a quelli lì del governo, obbligandoli a spostare il centro di raccolta in un altro degli immensi spazio della capitale e riconquistando la piazza (degli scrittori che obbligano il governo a ritirare una decisione, che roba!).
Il risultato è che l'inizio della Feria è più o meno coinciso con il mio (nostro, non ero solo) arrivo in Messico. L'atmosfera di una domenica pomeriggio era positiva: tantissima gente, di tutte le età e classi sociali, si aggirava tra i numerosissimi stand di varie case editrici. In più, diversi forum erano organizzati. I dibattiti erano avvincenti. Niente a che vedere con i melensi, noiosi e autoreferenziali festival del libro europei. Già, perché lo scopo principale (e condiviso) di quei dibattiti era di esprimere solidarietà a los maestros e specificare bene che la feria non stava sottraendo loro uno spazio, ma lo aveva riconquistato, per restituirglielo. Così, la moderatrice del dibattito a cui ho assistito accusava, con tanto di indice puntato contro l'adiacente Palacio nacional, il governo dei suoi misfatti: politiche liberali, corruzione, controllo dei media, tutte tematiche che potrebbero trasferirsi (con tutte le differenze del caso) dall'altra parte dell'Atlantico.
Una società civile messicana
Ma quello che voglio mettere in evidenza è piuttosto l'atteggiamento con cui questi problemi venivano trattati; una chiarezza e una forte criticità contraddistinguevano il dibattito. E non solo da parte degli intellettuali (la parola è mia e serve a riassumere i vari casi di figura presenti al dibattito, principalmente scrittori e giornalisti) che intervenivano, ma anche e soprattutto da parte del pubblico, cioè della gente, che non era lì nella posizione di qualcuno che ascolta per imparare cose, per aspettare la parola riveltrice, di un Travaglio o di un Grillo, ad esempio. La gente era la sede stessa della critica e ritmava gli interventi con commenti, grida, applausi, ironie. Un pubblico numeroso e che reagiva, attivo e attento soprattutto al dibattito sulla strategie di uscita: che fare? Come creare un'informazione libera? Quali mezzi (Internet, una nuova televisione popolare)? Come ribaltiamo il potere in questo paese? Cose concrete insomma, non pugnette.
Cose pubbliche. Al punto che uno degli intellettuali ha dato vita ad un intervento direttamente in interazione con il pubblico, parlando di una starlette della televesione messicana (Laura Bozzo) che, oltre ad avere problemi giudiziari con il suo paese di origine (non so più se il Cile o il Perù), ha approfittato degli uragani per girare alcune immagini sensazionalistiche di lei in elicottero mostrando la catastrofe ai telespettatori. Ebbene, di quella presa in giro, di quella critica, di quell'ironia l'intellettuale non era il solo autore. Era nell'interazione, nello scambio di battute tra il pubblico e l'intellettuale che la critica prendeva forma: un momento in cui una comunità proponeva un riferimento comune e ne dibatteva, divertendosi, per apportare una critica più ampia (ai media specialmente).
È lì, in questa interazione a partire da riferimenti comuni, che ho avuto l'impressione dell'esistenza di una società civile messicana, che ha dei valori comuni di referimento, delle conoscenze di riferimento, e che in base a questi valori comuni realizza un dibattito sull'attualità (e non solo) che ha un senso. Senso che, invece, mi sembra mancare profondamente nel dibattito pubblico europeo, quando questo senso comune non si limiti all'indignazione e, d'altra parte, fatti salvi alcuni piccoli circoli generalmente ritenuti minoritari o estremistici. Esiste, in Europa e in Italia in particolare, una società civile? Saremmo pronti a fare un dibattito pubblico, sotto un tendone enorme, a piazza Colonna o Venezia, per esempio, criticando a voce alta i vari Vespa, De Filippi, Costanzo, Floris... Oppure ce li avremmo proprio sul palco?
La Lucha libre
Cambiamo argomento, pur restando su questa problematica del pubblico come sede di un'azione sociale. Passiamo però allo spettacolo. Uno degli sport/spettcaoli più seguiti dai messicani è la lucha libre, la lotta libera, una sorta di wrestling messicano. Sul ring, due squadre si affrontano. Da una parte i rudos, che non rispettano le regole del gioco e la cui brutalità non ha altro scopo che distruggere l'avversario e vincere. Dall'altro, i tecnicos, molto più corretti e onesti. Sui gradoni dell'arena, famiglie e bambini tifano tendenzialmente per questi ultimi, mentre impiegati sottomessi a una gerarchia durante la settimana tiferanno più volentieri per i primi. Le due squadre incarnano così due principi basilari della vita sociale: rispetto delle regole e del vivere insieme contro volontà di sopraffazione. I tecnicos, per fortuna, vincono più spesso. Ma in fondo tutti sanno che si tratta soltanto di una finzione e che le due squadre non si picchiano realmente: è uno spettacolo. E il vero protagonista dell spettacolo non sono i luchadores, ma il pubblico, che interagisce con loro, gli parla, li incita, tifa. E, soprattutto, lo show, il fatto che la lotta sia una finzione, permette al pubblico, alla società, di riconciliarsi, di riconoscersi in ambedue i principi, di mentenersi in equilibrio tra rispetto della vita sociale e egoismo. È, per così dire, una sorta di catarsi. È un'altra prova dell'esistenza di una società civile, di una dimensione pubblica forte nel popolo messicano, dimensione che continuerò a sviluppare nel post successivo, dedicato ai murales.
Un assaggino:
David Alfaro Siqueiros, México por la Democracia y la indipendencia, parte del pannello centrale del trittico Nueva Democracia, 1944-45, al Palacio de Bellas Artes di ittà del Messico. La libertà emerge da un vulcano e spezza le catene.

Per leggere la seconda parte, clicca qui.

martedì 6 agosto 2013

La molteplice discriminazione: il razzismo, la Kyenge e il resto della società



Il caso delle aggressioni nei confronti della ministra Cécile Kyenge ha recentemente rivelato come il razzismo sia, in Italia, socialmente accettato, condiviso e promosso. Tuttavia, c'è secondo me un errore di analisi del fenomeno. L'errore è di considerare il razzismo come un fenomeno in sé, slegato da problematiche di altro tipo. Basterebbe quindi dire “il razzismo è odio ingiustificato” per vincerlo. Mentre invece bisogna criticarlo più profondamente.
Mi spiego. Ho imparato che il razzismo non è semplicemente “odio di razza” nei confronti di chi è diverso da me. Il razzismo non esiste in sé, isolatamente, ma all'interno di una società, in cui le divisioni e le discriminazioni sono molteplici: di etnia, ma anche di sesso, di classe, generazionali, culturali. Il razzismo interagisce inevitabilmente con queste divisioni, è incastonato nell'insieme delle gerarchie che organizzano la società e trae forza da esse.
Il caso della Kyenge lo illustra bene. In particolare nei mesi scorsi c'è stato un episodio particolarmente rivelatore di questo incastonamento sociale del razzismo. È il caso della polemica del politologo Giovanni Sartori che, in un articolo sul Corriere della Sera del 17 giugno, se la prendeva con la Kyenge in quanto “incompetente” sul tema dell'integrazione.
L'articolo di Sartori
Il politologo Giovanni Sartori
L'articolo è un insieme abbastanza delirante di considerazioni assemblate senza coerenza alcuna. Possiamo tuttavia individuare tre argomenti principali. Il primo è che la Kyenge, in quanto medico oculista, non è titolata a occuparsi di integrazione: cosa ne sa lei? La sola prova addotta dal politologo a supporto di questa sua opinione è che la ministra probabilmente non ha “letto il [suo] libro Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei, e anche un [suo] recente editoriale” sul Corriere. Il secondo argomento è che lo ius soli è storicamente adottato dai paesi sottopopolati (bisognosi di ripopolamento) e non da paesi del Vecchio Mondo (cosa non vera, vista la Francia), le cui condizioni economiche non lo permetterebbero. In effetti, l'Italia è, sempre secondo il professore, ormai satura, afflitta da una grande disoccupazione giovanile e gli immigrati non possono che peggiorare la situazione; al punto che Sartori lega come la causa all'effetto il fatto che il numero di imprenditori immigrati cresce, mentre gli italiani falliscono. Dato, però, non supportato da niente. Sarebbe quindi un errore della sinistra questa apertura “terzomondista” (il PD?!) nei confronti degli stranieri. Il terzo argomento è più sostanziale. Sartori afferma che l'Italia non è un paese meticcio e non può esserlo: solo i paesi sudamericani lo sono. Dice precisamente che la Kyenge dovrebbe comprarsi con i soldi che le passa lo Stato “un dizionarietto di italiano” per cercare la parola “meticcio”. Inoltre cita, senza giustificare il paragone con l'Italia di oggi, il caso dell'India che, durante il processo di decolonizzazione, ha vissuto una divisione tra indù e musulmani tale da dover fare una secessione e creare un nuovo stato, il Pakistan: questo sarebbe un esempio dell'ineluttabile disintegrazione che governa il mondo, frantumato com'è in blocchi di civiltà religiose che si scontrano (non dimentichiamo che Sartori frequenta da anni l'accademia americana, da cui proviene la tesi dello scontro di civiltà di Huntington, tesi storica e ideologica che ha fondato la politica estera delle presidenze Bush e la visione neo-conservatrice del mondo).
Questi argomenti sono, evidentemente, molto deboli e il tono di Sartori è molto polemico e poco incisivo. Insomma, l'articolo è scritto particolarmente male, anche peggio degli articoli che appaiono abitualmente su un giornale come il Corriere. La direzione del quotidiano deve essersene accorta, al punto da declassare il pezzo dalla colonna di sinistra, quella degli editoriali, alla colonna di destra, quella degli articoli di spalla. La cosa ha fatto inorridire Sartori, che ha minacciato di interrompere la sua ventennale collaborazione da editorialista. L'articolo ha avuto ovviamente un po' di risonanza e in tanti, per esempio sul Fatto quotidiano, hanno notato alcuni degli elementi più palesemente contraddittori delle tesi di Sartori. Eppure, queste riscuotono tutto sommato successo presso i lettori, come dimostrano i commenti a quest'altro articolo del Fatto.
Nessuno ha notato però l'insieme delle egemonie che quest'articolo promuove, né ha spiegato come il razzismo sia necessario al mantenimento dell'attuale ordine sociale (molto poco democratico).
Il razzismo e l'ordine socio-economico.
La tesi centrale, per la quale la sinistra terzomondista avrebbe aperto le porte agli stranieri, causa del declino economico degli italiani, è generalmente accettata e serve da una parte a non interrogarsi sulle reali cause della crisi economica, dall'altra a costituire “un'identità italiana” fittizia da opporre allo “straniero”. L'etnicizzazione dei conflitti sociali ed economici in tempo di crisi rinforza così la condizione attuale d'esistenza della comunità nazionale e garantisce il mantenimento dell'ordine sociale: nessuno si solleva contro chi ha causato la crisi continuando ad arricchirsi perché si individua un altro nemico, l'immigrato. Insomma, noi italiani contro loro stranieri: questa divisione permette di non affrontare il fondo della crisi e di costituire una segmentazione sociale che va a danno dell'elemento debole, l'immigrato, garantendo a chi ha il potere di conservarlo.
È una vecchia tesi che riesce a riciclarsi attraverso i decenni. Poco importa se in realtà l'Italia non ha mai aperto le sue porte agli stranieri (basti guardare la repressivissima legge Bossi-Fini e i suoi effetti). Poco importa anche che i giovani italiani abbiano già cominciato a fare lavori dequalificanti e sottopagati, cosa che Sartori sembra invece paventare soltanto per il futuro, segno che non conosce un tubo della realtà italiana contemporanea.
Il razzismo e la democrazia
Un'altra importante dominazione che Sartori alimenta con il suo articolo è di tipo politico. Il principale, e in fondo l'unico, rimprovero che il professore fa alla Kyenge è di non essere titolata ad occuparsi di integrazione. E questo è un argomento estremamente interessante. L'idea di base è che, per fare politica ed essere ministri, si debba essere competenti e titolati: cioè sei politico solo se sei politologo, sei ministro dell'economia solo se sei economista, sei ministro della sanità solo se sei medico. Per questo la Kyenge, oculista, sarebbe inadatta al dicastero dell'integrazione. Questa idea è purtroppo fondante della visione odierna della politica, vista come semplice amministrazione della cosa pubblica: per governare bene basta saper fare le cose, essere dei buoni tecnici, onesti ed efficaci. Si tratta di una visione meritocratica della politica, fatta su curriculum: depoliticizzazione della politica. Ed è questa d'altra parte la visione che assicurava al governo Monti il suo consenso iniziale ed è lo stesso tipo di discorso portato avanti dal Movimento Cinque Stelle. Come se ci fosse una sola maniera di fare le cose e di gestire la cosa pubblica; come se gli interessi in gioco fossero sempre unici per tutti; come se la politica fosse svuotata del suo compito principale: scegliere, scegliere quale tipo di società e di economia costruire. Un tecnico esegue, un politico sceglie.
Questo è evidentemente un problema non solo di razzismo nei confronti della Kyenge, ma di visione della democrazia. Il fondamento della democrazia è ben altro: che un contadino, un operaio, un lavoratore delle pulizie o del call-center diventino parlamentari e ministri. La democrazia non è meritocratica, ma si basa sull'idea che esistono uno spazio pubblico e una società civile sede di dibattiti e di lotte dalle quali scaturisce il governo della cosa pubblica. Così, la legittimità della Kyenge ad essere ministro dell'integrazione non deriva dal suo titolo di studio, ma dal fatto che da anni conduce una battaglia politica sul tema dello ius soli, battaglia che ha ragion d'essere nella società contemporanea. È in quanto militante politica e non in quanto oculista che Kyenge è diventata ministra.
È d'altra parte per questa stessa ragione che nessuno ha mai chiesto ad alcun ministro di mostrare la propria laurea prima di poter accettare il dicastero. Strano che l'idea venga a Sartori proprio per un ministro nero e donna.
Il razzismo e il sessismo
La presidente della Camera Laura Boldrini
Nero e donna. Sì, perché la pulsione più forte del razzismo contro la Kyenge è di tipo maschile e maschilista. L'odio contro la ministra è un odio contro la donna. Il discorso di Sartori non è solo quello di un italiano bianco nei confronti di un italiano nero, ma anche e soprattutto quello di un uomo nei confronti di una donna. La donna non deve far politica (certo, il Pdl è pieno di donne, ma è tutta un'altra cosa...). Nel clima generale della politica italiana questa è una convinzione abbastanza confessata che governa il disprezzo reiterato nei confronti dei politici donna. La Kyenge non è d'altra parte l'unica donna politica italiana ad aver ricevuto minacce ed aggressioni. Anche la Boldrini, presidente della Camera, ex-portavoce dell'Alto Commissariato ONU per i diritti dei rifugiati e favorevole allo ius soli, è stata attaccata e, anche lì, le offese si caratterizzano per una commistione di razzismo e sessismo, sul tipo “portateli nel letto i tuoi negri e fatti sgozzare”. Gli attacchi alla Kyenge e alla Boldrini a sfondo razzista e sessista svalorizzano e delegittimano la loro presenza in politica e questi attacchi provengono principalmente da voci maschie: servono a perpetrare il carattere maschile della politica, alla quale la donna non dovrebbe avere accesso.
Il razzismo e le classi sociali
Inoltre è importante riflettere al razzismo in Italia in legame alle classe sociali. L'odio razziale di Sartori ha infatti un altro fattore: la classe. Il suo è soprattutto un classismo. Nell'immaginario di Sartori l'arabo o il pachistano ben vestito, in giacca e cravatta e con una bella macchina, che fa un buon lavoro, non è un problema. Sartori se la prende con la Kyenge quando questa afferma che sono numerosi gli imprenditori di origine straniera: ma “imprenditore è una parola elastica”, dice Sartori, “metti su un negozietto da quattro soldi e sei un imprenditore”.
L'immigrato, in quanto commerciante troppo modesto o operaio, contadino, muratore, non è un vero imprenditore né un lavoratore come gli altri. L'idea che Sartori ha del lavoro è evidentemente più capitalista, privilegia la ricchezza e non sopporta tutto ciò che mostra povertà. È la povertà che molti italiani, dopo averla collettivamente rimossa con il boom economico, vogliono rimuovere dal proprio orizzonte di vita. È la povertà promossa dalle rappresentazioni che si fanno dell'immigrato che dà fastidio. L'odio di Sartori per gli immigrati è quello di un ricco nei confronti di un povero.
Il razzismo e la cultura istituzionale
Quel che sembra rodere maggiormente al vecchio Sartori è il fatto che la Kyenge non abbia (a suo avviso) letto il suo libro, che conteneva delle proposte sull'integrazione degli immigrati in Italia. Sartori dà così per scontato che se la Kyenge non si è filata le sue proposte è perché non le conosce – e non perché evidentemente non valgono una ceppa. Questo sottintende che, da una parte, la Kyenge non avrebbe nessuna capacità di giudizio e, dall'altra, che nessuno resisterebbe alla genialità delle idee dell'emerito prof. Ecco perché Sartori se la prende anche con la mala fede degli altri che, pur se più intelligenti della ministra, non gli hanno mai dato ascolto. “Il buon senso non fa notizia”, dice.
Questo fatto è rivelatore del cattivissimo rapporto che gli intellettuali e, in particolare, gli accademici italiani hanno con la società civile e la politica. Per i presuntuosi professoroni non si tratta di partecipare al dibattito pubblico apportando una visione arricchita dalle proprie ricerche, ma di insegnare ai poveri ignoranti, politici e giornalisti (il resto del mondo è difficilmente preso in considerazione), come dovrebbero andare le cose in un mondo normale. Questa presunzione e questo elitismo professorale è riprodotto nell'accademia italiana, in cui i professori sono depositari di un sapere vero che lo studente non può che riprodurre, tentando di imitarlo senza potervi riuscire. Chi esce dai ranghi non ha diritto di cittadinanza. Ma difficilmente il sapere prodotto sarà, nel passaggio da una generazione all'altra, rimesso in discussione, quindi innovativo.
L'aura di Sartori deve essere una delle ragioni per cui la direzione del Corriere ha deciso di declassare, senza rinviarlo all'autore, il pezzo. Bisognerebbe però sentirsi liberi di dirgli che ha scritto un po' di cazzate. Nessuno è perfetto.
Così, il problema del razzismo nell'articolo di Sartori è anche un problema di democrazia del sapere e della cultura: non basta essere un'istituzione culturale, maschi e bianchi per dire cose intelligenti.
Il razzismo e la gerontocrazia
Nessuno è perfetto. Soprattutto a novant'anni. Eh sì, perché Sartori è del 1924. Siamo sicuri che sia tra gli intellettuali più adatti ad occuparsi di un fenomeno così recente, come quello dell'immigrazione in Italia e del dibattito sullo ius soli? Perché non dare spazio, soprattutto sulle pagine dei grandi giornali, a dei pensatori più giovani, che vivono nel mondo di oggi, che lo capiscono e sanno interpretarlo? Perché non liberarsi dei vecchi che, per quanto rispettabili, hanno forse esaurito le cose da dire alla nostra società?
Ma questo problema è più ampio e tocca anche la proprietà dei giornali e dei media, nelle mani di gruppi poco interessati a fare davvero informazione e dibattito.
Lo storico neo-cons Samuel Huntington
Il razzismo e l'identità
Questo è un grande malinteso del dibattito sullo ius soli. Le rappresentazioni di questa problematica veicolano infatti l'idea che sia in gioco l'identità dell'Italia e degli italiani, basandosi sulla teoria dello scontro di civiltà (che abbiamo evocato prima): questa concezione dell'identità non ha infatti senso che all'interno di una più vasta civiltà o cultura che bisognerebbe preservare. Invece lo ius soli e lo ius sanguinis sono norme giuridiche e riguardano non l'identità delle persone e dei gruppi, ché quella non si definisce per decreto, bensì le condizioni pratiche di vita delle persone. Lo ius soli serve semplicemente a permettere a chi è nato e cresciuto in Italia di restarci senza dover fare un'infinita tiritera dal diciottesimo anno di vita in poi, quando diventa “immigrato” (mentre fino al giorno prima era italiano) e il suo statuto comincia ad essere regolato dalla Bossi-Fini, legge che cambia la vita, in peggio.

Ecco qualche riflessione sul perché il dibattito sullo ius soli e la lotta contro il razzismo della Kyenge è legato ad altre questioni e riguarda tutti. Il razzismo, purtroppo, non è solo. Liberarsi dal razzismo significa liberarsi da tante altre dominazioni e discriminazioni. Il razzismo è la punta dell'ice-berg. Battersi contro di esso è battersi su più fronti. Ma quale strategia?

mercoledì 1 maggio 2013

Non è successo nulla, tout va bien. O quasi.


 Alla fine, non è successo nulla. Dopo tutto quello che è successo, voglio dire, non è successo nulla. Dico, dopo tutto quello che c'è stato, le elezioni, il presidente della Repubblica delle banane, qualche timida manifestazione, un attentato che non era un attentato, dopo tutto quello che è successo, non è successo nulla. Eppure, qualche conclusione da quel nulla bisognerà tirarla, sia pure con le pinze e un po' di fantasia.
In particolare, la mia pinza da quel nulla tira fuori alcune riflessioni e si trasforma in penna per scriverle qui. E le sue conclusioni sono due, abbastanza evidenti. Una, che la politica parlamentare, quella partitocratica, ha un'ideologia liberista e che questa è causa dei nostri problemi (evidenza che gli elettori “di sinistra” del PD non hanno capito). Due, che il cambiamento che si invoca tanto negli ultimi tempi non può venire da quella politica parlamentare, anche quando in parlamento ci va gente nuova: deve cambiare la società e il palazzo cambierà con essa. Il cambiamento deve invertire la tendenza neoliberista e deve venire dal basso, come si diceva una volta, e da sinistra, ché da lì vengono le istanze progressiste e di emancipazione dei popoli.

Ed è questa la grande povertà della società italiana: di non sapere vedere quanto invece è conservatrice e impregnata di quei valori che le rendono miserabile. Per questo “la gente”, questo soggetto indefinito, che oggi alcuni chiamano “i cittadini”, non riescono a pensare un'uscita dalla loro miseria, non riescono a lottare contro di essa, magari organizzando un movimento sociale che sviluppi una nuova idea di società basata su dei valori di solidarietà e di equità. Questi valori sono assenti in una società immiserita e che ha vergogna di ammettere la propria miseria. Al punto da scegliere il suicidio.
Eppure, un'idea di società equa e giusta non è del tutto assente da altre società pur così vicine a quella italiana. Infatti, è un'idea su cui alcuni movimenti, come quello degli Indignados, quello di Occupy Wall Street, quello di Atene, quello di piazza Tahrir, quello portoghese, quello islandese, hanno già cominciato a lavorare. In Italia, niente. Percepiamo il malessere e ce lo facciamo piovere addosso, arrugginendoci. Eppure, quella buona erba che dovrebbe nutrire una nuova idea di società ha già un terreno su cui crescere.
Questo terreno è quello dei poveri. È il mondo degli schiavi al lavoro, gli stagisti, gli immigrati (che sono stati quasi i soli, nel silenzio generale e colpevole, sindacati compresi, ad aver scioperato negli ultimi mesi), gli operai ricattati, i licenziati, gli interinali, i somministrati, i disoccupati, i lavoratori a cottimo mascherati in partite Iva e liberi professionisti, i dipendenti pubblici, il personale precarizzato degli ospedali in chiusura, i cocoprò, i cococò, gli esodati, le vittime delle grandi opere mafiose, i pensionati e quelli che in pensione dovevano andarci nel 2012, poi nel 2013, poi nel 2014, poi... Insomma noi, noi tutti, vittime di una politica economica che schiavizza le persone: questo mondo qui è il terreno su cui, con ogni evidenza, dovrebbe crescere e rinverdire un'idea solidale di società.

Questi mondi sociali e lavorativi vengono spesso rappresentati come “dimenticati”, trascurati da una politica “lontana dai cittadini”. In questa visione, una disattenzione e delle leggi fatte male da parlamentari incompetenti e ladri genererebbe inevitabilmente una cattiva gestione della cosa pubblica di cui la nostra miseria sarebbe figlia. Basterebbe, in tal caso, raddrizzare un po' il timone per evitare il naufragio.
Queste rappresentazioni, che sembrano essere il massimo della critica che la maggioranza degli italiani riesce ad apportare al sistema sociale e politico in cui vive, sono quantomeno ingenue.
Non credo che la nostra miseria esista solo perché siamo governati da gente ladra ed incompetente. Gli incompetenti e ladri, infatti, servono un'ideologia, “l'unica praticabile”, che ci vuole schiavi. È l'ideologia capitalista, di cui quei ladri sono i servi e rappresentanti e che si nutre delle innumerevoli forme di schiavitù in cui siamo ridotti. Precari, immigrati, stagisti, disoccupati: tutti schiavizzati per il profitto di pochi. Un'ideologia, tante schiavitù.

L'egemonia dell'ideologia capitalista è totale. La personalità dello schiavo ha incorporato quell'ideologia che si traduce in modi di vita, di vedere il mondo, di organizzarlo. E quest'organizzazione del mondo è fondata sulla separazione, sulla chiusura, sulla divisione: i nostri lavori si differenziano sempre più, gli ambienti in cui viviamo sono sempre meno penetrabili, i nostri stili di vita individualisti.
Lo stato di schiavitù in cui ci troviamo ci impedisce di pensarci come membri di una collettività, come individui partecipanti di un segmento di società e della società intera. Siamo individui le cui parole e i cui atti si affastellano e si confondono in uno spazio virtuale dove l'infinità delle connessioni impedisce l'emersione di tratti comuni, di gruppi sociali capaci di agire.

Nessuno di noi ha una pertinenza sociale. I nomi comuni con cui siamo identificati nel corso della nostra vita, e soprattutto nel nostro lavoro, sono incommensurabili, frutto di una moltiplicazione lessicale che ha frammentato le nostre aspettative, le nostre identità, le nostre personalità. Ridotti in segmenti individuali ed egotici, siamo derubati di qualsiasi potere si significazione comune. Hanno stretto il laccio intorno alla pertinenza sociale dei nostri racconti individuali: protagonisti solo di noi stessi, la storia degli altri non ci interessa, non ci riguarda, non ci commuove.

La più grande vittoria di questo processo, mi pare, non è stata solo frammentazione della società e dell'economia, ma l'isolamento dell'individuo. Abbiamo vissuto un processo di atomizzazione dei rapporti sociali che ci impedisce di associarsi. Siamo soli, rinchiusi nella nostra solitudine, nel nostro isolamento. Siamo atomi.
La disoccupazione è l'apice di questo processo di atomizzazione. Soprattutto nella disoccupazione, e soprattutto in quella giovanile, è visibile la solitudine esistenziale di cui è prigioniero l'individuo che vive nell'Italia contemporanea.
Sì, perché un giovane disoccupato è un giovane annientato. È un giovane privato della sua forza vitale, di un posto in società. Un giovane disoccupato è stato rigettato dalla società, spossessato della sua traiettoria di vita, reso impotente di fronte a un mondo che pur agisce su di lui. È stato privato di qualsiasi ruolo in società, di qualsiasi definizione. Confinato in un limbo di ristrettezze, si definisce per quel che non è. Un giovane disoccupato è costretto a restare giovane nella sua psicologia, nella sua personalità, fin nella sua sessualità. È sterile e impotente. Non può, perché è escluso.
È un atomo, solo, isolato, privo di qualsiasi forza, in connessione forse con il mondo intero, ma in associazione con nessuno. Cerca un legame molecolare impossibile che crei una lega capace di dare vita ad un mondo nuovo. È idrogeno spaiato e senza respiro.
Questo isolamento è prigionia e schiavitù. È impossibilità di pensare al di là del proprio io, un io che corrisponde più o meno al niente.

Questa è stata una grande vittoria del neoliberismo in Italia e altrove: l'isolamento di ognuno di noi. È un isolamento non solo fisico. È un isolamento psicologico, sociale, certo. Ma è un isolamento anche linguistico: la nostra lingua, il nostro discorso del mondo non è condivisibile, poiché frutto di un'infinita frammentazione che ci precede, ci colloca, ci confina. Una divisione il cui risultato è un numero decimale periodico.
Perduta la nostra pertinenza in società, incapaci di sentirci parte di un discorso comune, collettivo, frigidi e distratti di fronte al viso sofferente di chi ci sta di fronte, non abbiamo nessuna empatia col mondo, quello degli umani come quello della natura.
È una frontiera da abbattere: politica, sociale, psicologica, linguistica, grammaticale. È la grammatica che usiamo per descrivere il mondo che deve liberarsi dei suoi limiti e poter dire la nostra schiavitù in maniera collettiva. Una grammatica che sia associativa e solidale. Infinitamente politica.

venerdì 29 marzo 2013

Storie di Negri, Storie da Bianchi: Django si è davvero liberato?



Prima di tutto, è così che i problemi si pongono a Mayotte [donna di colore] – all'età di cinque anni e alla terza pagina del suo libro: “Lei tirava fuori il calamaio dal suo banco e glielo scaraventava sulla testa, facendogli una doccia.” Era la maniera tutta sua di trasformare i Bianchi in Neri. Ma si è resa conto ben presto della vanità dei suoi sforzi; e poi ci sono Loulouze e sua madre che le hanno detto che la vita, per una donna di colore, è difficile. Allora, non potendo più annerire, non potendo più negrificare il mondo, cercherà nel suo corpo e nel suo pensiero di sbiancarlo.

Qualsiasi popolo colonizzato – cioè qualsiasi popolo in seno al quale è sorto un complesso d'inferiorità, a causa della demolizione dell'originalità culturale locale – si situa di fronte al linguaggio della nazione civilizzatrice, cioè della cultura metropolitana. Il colonizzato sarà tanto fuggito dal proprio pantano quanto più si sarà appropriato dei valori culturali della metropoli. Sarà tanto bianco quanto più avrà rigettato le sua nerezza, il suo pantano.

Frantz Fanon, Peau noire, masques blancs.

Guardando Django Unchained di Quentin Tarantino un paio di settimane fa al cinema, ho pensato a Fanon e alla sua maniera di descrivere la dominazione subita dal negro colonizzato. Certo, Fanon è un intellettuale e psichiatra e in Peau noire, masques blancs parla dei neri delle Antille e del loro rapporto alla Métropole, la Francia. Leggere Tarantino attraverso Fanon può essere in parte fuorviante.
Eppure, quando il Tedesco (ah, piccola nota: io ho una cattiva memoria; a parte Django, i nomi degli altri personaggi li ho dimenticati. Quindi siate comprensivi e accettate la semplificazione: il Tedesco è il (finto) cacciatore di taglie, Di Caprio è il grande proprietario terriero, il Servo è il servo di Di Caprio, etc.).
Quando verso l'inizio del film il Tedesco libera Django e gli dà la possibilità di scegliere il suo abbigliamento, Django, incredulo della possibilità di scelta che gli è stata data, si veste come un colonizzatore schiavista francese di un secolo e mezzo prima: velluto blu, bavero bianco. Di fronte a questa scena, Fanon mi è saltato alla mente e non ho potuto fare a meno di interpretare Django Unchained come un film sull'impossibilità di liberarsi da una dominazione totale imposta ad un gruppo, in questo caso gli schiavi neri.
Django è un gran bel film. Si spara e c'è violenza come in un buon western. Tanti morti, tutti ammazzati da un eroe per il quale simpatizziamo dall'inizio alla fine, quando trionfa. Per di più, la violenza in Tarantino è neutralizzata (quasi) totalmente: è splatter, non fa paura e la fotografia rende le immagini più vicine alle pagine di un fumetto che alle scene di un film.
In un paio di momenti, però, la fotografia cambia e la violenza inquieta realmente lo spettatore. Si tratta dei ricordi di Django che ripensa alla sua fuga con Brumhilde, alla cattura, alle sevizie subite. Quelle scene non sono più le pagine di un fumetto, ma delle scene quasi documentaristiche, come a dire: certo cari spettatori, noi qui ci stiamo raccontando una storia, una finzione, ci stiamo divertendo, ma ricordatevi che queste cose succedevano/ono davvero.
Django non è un film storico. Tarantino ci aveva già abituato a delle finzioni ispirate a degli eventi storici scottanti. Ed è, a mio avviso, su questo statuto di finzione storica (nel senso di sconvolgimento narrativo, fittizio della Storia) che bisogna riflettere. Tarantino prende degli eventi storici e li manipola, li stravolge, prende i vinti e gli fa compiere una vendetta violenta, catartica e spettacolare. Come piace a noi.
Invertire il corso della Storia attraverso la finzione è una maniera di riflettere sulla Storia. Manipolarla non significa immaginare come ci sarebbe piaciuto che andasse, ma rappresentare, cioè interpretare le dinamiche storiche e mostrarle. Una finzione storica, nel caso di Django Unchained, è un film che riflette sulla schiavitù dei neri negli States e prova a dirne le dinamiche. Insomma, questa finzione è un'astrazione, una sega mentale che, per una volta, non è noiosissima e ci tiene incollati allo schermo per tre ore. Roba paradisiaca.
Django non è un eroe negro. Se gli amici della negritudine avessero visto questo film qualche decennio fa, forse l'avrebbero criticato alla grande. E in molti l'hanno fatto oggi. Ciò che scandalizza è proprio il fatto che Django non riscatta i negri. La sua vendetta è tutta personale, egoista e individuale, come ha messo in evidenza un mio caro amico su un blog fighissimo. Django, anzi, decreta la morte di un altro negro. Pare proprio che voglia distinguersi dagli altri neri al punto che, prima di ammazzare il Servo alla fine del film, dice di essere quell'uno su mille negri a cui Di Caprio accordava l'intelligenza. In Django nessuno spirito di “classe”, cioè di “razza”. Sembra che gli stessi schiavi neri, vedendolo a cavallo, siano d'accordo con Di Caprio: se quell'uomo è a cavallo, o è un Bianco o il mondo va alla rovescia.
La divisione del mondo nel profondo Sud pare fatta così: ci sono i Bianchi e ci sono i Negri, gli schiavi, come c'è la Terra che gira intorno al Sole. Django non può essere il liberatore dei Negri perché il Negro condivide, interiorizza la dominazione che subisce, perché su quella dominazione si fonda l'ordine sociale, l'organizzazione del mondo in ascisse e coordinate, il posto che ognuno di loro (di noi) occupa nel mondo. È una dominazione che è incorporata da tutti, bianchi e neri, e che genera delle disposizioni insormontabili. Insomma, che un negro vada a cavallo fa parte della sfera dell'impensabile.
Il padre di Di Caprio avrebbe potuto morire, un giorno qualsiasi, sotto il rasoio di un negro che gli faceva la barba ogni mattina sotto il portico della villa. Eppure, lo schiavo non gli ha mai tagliato la gola. E perché avrebbe dovuto? Lo schiavo è schiavo perché non sa di essere schiavo. E non credere che questo non ti riguardi.
Il Negro, insomma, non può liberarsi in quanto Negro perché la dominazione che subisce è totale e non lascia spazio alla rivolta. Django, infatti, finché è un Negro non si prende nessuna libertà. La sua libertà è condizionata, prima di tutto perché è il Tedesco che gliela dà, anzi, che gliela vende in cambio dell'aiuto ad ammazzare quei tre farabutti le cui foto erano stampate sull'avviso di ricerca (falso). Ma, dopo quell'affare, Django proprio non sa come gestirla la sua libertà perché, in ogni caso, un posto per un Negro libero nel mondo in cui vive non è previsto. Quando allora il Tedesco gli propone di passare una stagione di caccia (di taglie) con lui, Django non è libero ed accetta. Sono i rapporti di forza che scelgono per lui.
È da questo momento che iniziano le peripezie di Django per giungere fino ai terreni di Di Caprio con lo scopo di liberare la sua Brumhilde. È da questo momento che Django comincia il suo cammino verso la libertà, in quanto eroe di una favola popolare tedesca e protagonista di una commedia teatrale di cui il Tedesco (e non Django) è il regista. E questo percorso di libertà è prima di tutto un percorso di sbiancamento. Django deve sbiancarsi. Va a cavallo, diventa un negriero, fa ammazzare qualche negro qua e là. Ma, soprattutto, Django impara a parlare come un bianco.
Fanon, nella seconda citazione, attribuisce una grande importanza al linguaggio. Il linguaggio è la dimensione principale in cui la dominazione del Bianco/dominante si esercita sul Negro/dominato (come ogni dominazione). Il Negro non ha altra scelta che quella di incorporare, interiorizzare il linguaggio del Bianco, la sua organizzazione linguistica del mondo. Per lui, ormai, la sola maniera di migliorare la propria condizione è quella di parlare come il Bianco, meglio del Bianco.
Il solo momento in cui Django si prende la sua libertà da solo? Pensateci un po'... Verso la fine del film, quando il colpo da Di Caprio è andato a puttane, il Tedesco e Di Caprio sono morti e lui è portato in catene verso una miniera. Come si libera? Non spara un colpo (cioè, fino a un certo punto). Django si libera con la parola. Racconta ai tre carcerieri che lo scortano la storia di una banda di criminali sulla cui testa c'è una taglia e che si trovano nella villa di Di Caprio. Tira fuori allora l'avviso di ricerca che gli aveva dato il Tedesco e aveva tenuto in tasca. Illustra ai tre allocchi la convenienza e la facilità dell'affare e li convince perché, come dice uno di loro, Django “parla come un bianco”.
E non solo parla come un bianco, ma addirittura racconta delle storie, delle finzioni come un bianco. Da protagonista diventa regista, come il Tedesco.
Ricordiamo che non solo il suo racconto ai tre sbirri è falso, ma lo stesso avviso della taglia è falso così come lo erano tutti gli avvisi del Tedesco. E questo gliel'aveva detto, a Django, lo scagnozzo di Di Caprio quando stava per tagliargli il pisello. Il Tedesco, un personaggio estremamente teatrale, gli aveva raccontato tante, tante storie, tante finzioni e l'aveva diretto in queste commedie.
Ora Django ha imparato a raccontare storie altrettanto bene, proprio come un Bianco, e forse meglio. È grazie a questa arte di raccontare storie che può prendersi adesso la propria libertà. Questo è un passaggio importante, meglio essere chiari: la libertà di Django passa dalla sua capacità di apprendere dal bianco la maniera di raccontare, di dire il mondo. Dalla sua capacità, insomma, di integrarsi (termine di attualità...).
Elaborare una finzione è la patente per la libertà. La dominazione non può finire se non all'interno del racconto che il Bianco fa del mondo. La dominazione, insomma, non è sradicata e non può esserlo. Tarantino sembra esserne convinto. Il suo film ci dice che la Storia dei Negri, la storia di una dominazione totale non può essere raccontata che nei codici dei narrativi dei Bianchi.
Come si racconta la liberazione di Django, con quali generi? Uno più evidente, gli altri meno marcati. Il primo è ovviamente il genere cinematografico del western. Il secondo, a cui si fa allusione ma che fonda l'intrigo di Django, è quello della favola tedesca: un eroe, una serie di peripezie e di prove che deve oltrepassare, la vittoria e il premio che, generalmente, consiste nella liberazione dell'amata. Il terzo, il teatro: Django è un attore al servizio del Tedesco, regista di una commedia continua.
Tarantino si è fatto una domanda: come rappresentare la Storia della dominazione schiavista? Quale margine ho, io narratore bianco, di raccontare una storia di uno schiavo nero? Tarantino si è risposto che questo margine di narrabilità non gli è concesso (salvo a voler fare un film come Ken Loach). Quel che ha potuto fare, invece, è stato riflettere sull'impossibilità di rappresentare la dominazione schiavista al di fuori di questa stessa dominazione. Ha riflettuto sulle possibilità che ha il linguaggio di rappresentare ciò che il linguaggio stesso, nella sua radicazione sociale, non permette di rappresentare. Rappresentare l'irrappresentabilità dell'impensabile. Insomma, Django Unchained è un film metanarrativo, anzi metanarrabile. Ed è, secondo me, soprattutto per questo che il film ci piace.
Siamo d'accordo con Tarantino oppure no? È possibile oppure no la creazione di un discorso che evada la dominazione e la rinversi? È possibile oppure no una rivolta, una rivoluzione?
Ciò che Tarantino sembra trascurare è la possibilità di qualsiasi azione collettiva. Il suo universo è individualista e non concepisce la solidarietà e l'associazione di individui. La prospettiva di Frantz Fanon è radicalmente differente, soprattuto ne I dannati della terra, scritto dopo essersi impegnato al fianco del Fronte di Liberazione Nazionale algerino durante la guerra d'Algeria (1954-62). Lo psichiatra di origine caraibica amplia la sua teoria per cui il colonizzato è dominato psicologicamente dal colonizzatore: la sola maniera per liberarsi da quest'ultimo è di ucciderlo, altrettanto violentemente quanto è violenta la dominazione coloniale. Questo processo violento di decolonizzazione non può essere che condotto collettivamente, al livello della comunità colonizzata. In effetti la dominazione è collettiva e solo collettivamente le si può sconfiggere.
Abbiamo bisogno di un Django che sia tutti noi. Quello di Tarantino, effettivamente, non lo è. È importante riflettere su un discorso comune, un immaginario condiviso che sia capace di ri-raccontare il mondo, di ricrearlo, di rimodellarlo per migliorarlo, insieme e in modo solidale, per ribaltare la dominazione di cui siamo schiavi senza saper leggerla.