Alla fine, non è successo nulla. Dopo tutto quello che è successo,
voglio dire, non è successo nulla. Dico, dopo tutto quello che c'è
stato, le elezioni, il presidente della Repubblica delle banane,
qualche timida manifestazione, un attentato che non era un attentato,
dopo tutto quello che è successo, non è successo nulla. Eppure,
qualche conclusione da quel nulla bisognerà tirarla, sia pure con le
pinze e un po' di fantasia.
In particolare, la mia pinza da quel nulla tira fuori alcune
riflessioni e si trasforma in penna per scriverle qui. E le sue
conclusioni sono due, abbastanza evidenti. Una, che la politica
parlamentare, quella partitocratica, ha un'ideologia liberista e che
questa è causa dei nostri problemi (evidenza che gli elettori “di
sinistra” del PD non hanno capito). Due, che il cambiamento che si
invoca tanto negli ultimi tempi non può venire da quella politica
parlamentare, anche quando in parlamento ci va gente nuova: deve
cambiare la società e il palazzo cambierà con essa. Il cambiamento
deve invertire la tendenza neoliberista e deve venire dal basso, come
si diceva una volta, e da sinistra, ché da lì vengono le istanze
progressiste e di emancipazione dei popoli.
Ed è questa la grande povertà della società italiana: di non
sapere vedere quanto invece è conservatrice e impregnata di quei
valori che le rendono miserabile. Per questo “la gente”, questo
soggetto indefinito, che oggi alcuni chiamano “i cittadini”, non
riescono a pensare un'uscita dalla loro miseria, non riescono a
lottare contro di essa, magari organizzando un movimento sociale che sviluppi
una nuova idea di società basata su dei valori di solidarietà e di
equità. Questi valori sono assenti in una società immiserita e che
ha vergogna di ammettere la propria miseria. Al punto da scegliere il
suicidio.
Eppure, un'idea di società equa e giusta non è del tutto assente da
altre società pur così vicine a quella italiana. Infatti, è
un'idea su cui alcuni movimenti, come quello degli Indignados, quello
di Occupy Wall Street, quello di Atene, quello di piazza Tahrir,
quello portoghese, quello islandese, hanno già cominciato a
lavorare. In Italia, niente. Percepiamo il malessere e ce lo facciamo
piovere addosso, arrugginendoci. Eppure, quella buona erba che
dovrebbe nutrire una nuova idea di società ha già un terreno su cui
crescere.
Questo terreno è quello dei poveri. È il mondo degli schiavi al
lavoro, gli stagisti, gli immigrati (che sono stati quasi i soli, nel
silenzio generale e colpevole, sindacati compresi, ad aver scioperato
negli ultimi mesi), gli operai ricattati, i licenziati, gli
interinali, i somministrati, i disoccupati, i lavoratori a cottimo
mascherati in partite Iva e liberi professionisti, i dipendenti
pubblici, il personale precarizzato degli ospedali in chiusura, i
cocoprò, i cococò, gli esodati, le vittime delle grandi opere
mafiose, i pensionati e quelli che in pensione dovevano andarci nel
2012, poi nel 2013, poi nel 2014, poi... Insomma noi, noi tutti,
vittime di una politica economica che schiavizza le persone: questo
mondo qui è il terreno su cui, con ogni evidenza, dovrebbe crescere
e rinverdire un'idea solidale di
società.
Questi mondi sociali e lavorativi vengono spesso rappresentati come
“dimenticati”, trascurati da una politica “lontana dai
cittadini”. In questa visione, una disattenzione e delle leggi
fatte male da parlamentari incompetenti e ladri genererebbe
inevitabilmente una cattiva gestione della cosa pubblica di cui la nostra miseria sarebbe
figlia. Basterebbe, in tal caso, raddrizzare un po' il timone per
evitare il naufragio.
Queste rappresentazioni, che sembrano essere il massimo della critica
che la maggioranza degli italiani riesce ad apportare al sistema
sociale e politico in cui vive, sono quantomeno ingenue.
Non credo che la nostra miseria esista solo perché siamo governati
da gente ladra ed incompetente. Gli incompetenti e ladri, infatti,
servono un'ideologia, “l'unica praticabile”, che ci vuole
schiavi. È l'ideologia capitalista, di cui quei ladri sono i servi e
rappresentanti e che si nutre delle innumerevoli forme di schiavitù
in cui siamo ridotti. Precari, immigrati, stagisti, disoccupati:
tutti schiavizzati per il profitto di pochi. Un'ideologia, tante
schiavitù.
L'egemonia dell'ideologia capitalista è totale. La personalità
dello schiavo ha incorporato quell'ideologia che si traduce in modi
di vita, di vedere il mondo, di organizzarlo. E quest'organizzazione
del mondo è fondata sulla separazione, sulla chiusura, sulla
divisione: i nostri lavori si differenziano sempre più, gli ambienti
in cui viviamo sono sempre meno penetrabili, i nostri stili di vita
individualisti.
Lo stato di schiavitù in cui ci troviamo ci impedisce di pensarci
come membri di una collettività, come individui partecipanti di un
segmento di società e della società intera. Siamo individui le cui
parole e i cui atti si affastellano e si confondono in uno spazio
virtuale dove l'infinità delle connessioni impedisce l'emersione di
tratti comuni, di gruppi sociali capaci di agire.
Nessuno di noi ha una pertinenza sociale. I nomi comuni con cui siamo
identificati nel corso della nostra vita, e soprattutto nel nostro
lavoro, sono incommensurabili, frutto di una moltiplicazione
lessicale che ha frammentato le nostre aspettative, le nostre
identità, le nostre personalità. Ridotti in segmenti individuali ed
egotici, siamo derubati di qualsiasi potere si significazione comune.
Hanno stretto il laccio intorno alla pertinenza sociale dei nostri
racconti individuali: protagonisti solo di noi stessi, la storia
degli altri non ci interessa, non ci riguarda, non ci commuove.
La più grande vittoria di questo processo, mi pare, non è stata
solo frammentazione della società e dell'economia, ma l'isolamento
dell'individuo. Abbiamo vissuto un processo di atomizzazione dei
rapporti sociali che ci impedisce di associarsi. Siamo soli,
rinchiusi nella nostra solitudine, nel nostro isolamento. Siamo
atomi.
La disoccupazione è l'apice di questo processo di atomizzazione.
Soprattutto nella disoccupazione, e soprattutto in quella giovanile,
è visibile la solitudine esistenziale di cui è prigioniero
l'individuo che vive nell'Italia contemporanea.
Sì, perché un giovane disoccupato è un giovane annientato. È un
giovane privato della sua forza vitale, di un posto in società. Un
giovane disoccupato è stato rigettato dalla società, spossessato
della sua traiettoria di vita, reso impotente di fronte a un mondo
che pur agisce su di lui. È stato privato di qualsiasi ruolo in
società, di qualsiasi definizione. Confinato in un limbo di
ristrettezze, si definisce per quel che non è. Un giovane
disoccupato è costretto a restare giovane nella sua psicologia,
nella sua personalità, fin nella sua sessualità. È sterile e
impotente. Non può, perché è escluso.
È un atomo, solo, isolato, privo di qualsiasi forza, in connessione
forse con il mondo intero, ma in associazione con nessuno. Cerca un
legame molecolare impossibile che crei una lega capace di dare vita
ad un mondo nuovo. È idrogeno spaiato e senza respiro.
Questo isolamento è prigionia e schiavitù. È impossibilità di
pensare al di là del proprio io, un io che corrisponde più o meno
al niente.
Questa è stata una grande vittoria del neoliberismo in Italia e
altrove: l'isolamento di ognuno di noi. È un isolamento non solo
fisico. È un isolamento psicologico, sociale, certo. Ma è un
isolamento anche linguistico: la nostra lingua, il nostro discorso
del mondo non è condivisibile, poiché frutto di un'infinita
frammentazione che ci precede, ci colloca, ci confina. Una divisione
il cui risultato è un numero decimale periodico.
Perduta la nostra pertinenza in società, incapaci di sentirci parte
di un discorso comune, collettivo, frigidi e distratti di fronte al
viso sofferente di chi ci sta di fronte, non abbiamo nessuna empatia
col mondo, quello degli umani come quello della natura.
È una frontiera da abbattere: politica, sociale, psicologica,
linguistica, grammaticale. È la grammatica che usiamo per descrivere
il mondo che deve liberarsi dei suoi limiti e poter dire la nostra
schiavitù in maniera collettiva. Una grammatica che sia associativa
e solidale. Infinitamente politica.
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