Quando mamma Di Nardo
sentì dalla viva voce del
proprio figlio, Omar, che lui e la sua fidanzata avevano deciso di
sposarsi, lei versò una
lacrima di gioia. E il padre, che ora vedeva la speranza di diventar
nonno molto più vicina e concreta, se ne andò a cercare una
bottiglia di spumante per brindare e per nascondere la sua, di
lacrima.
Tuttavia, quando mamma Di
Nardo sentì dalla viva voce di Omar che lui e Rosa avevano deciso di
sposarsi, lei pensò immediatamente alla matassa ingarbugliata che
quel matrimonio avrebbe creato. Mamma Di Nardo e anche papà Di
Nardo, infatti, sapevano bene che quei due, per sposarsi, non
c'avevano una lira, o un centesimo come avevano imparato a dire da un
pò di anni a questa parte. E senza soldi e senza casa – si
chiedevano i due quando il figlio e la futura nuora finirono di cenare e se ne uscirono – che matrimonio s'ha da fare?
Certo, Rosa lavorava come
parrucchiera. Ma lavorava nel salone della zia, in nero e per 400
euro al mese, nella speranza che la zia un giorno andasse in
pensione, o schiattasse, lasciandole l'attività, le attrezzature, i
clienti e, si sperava, anche i guadagni. Ma la zia doveva ritenere che
questi ultimi, benché scarsi, fossero abbastanza soddisfacenti per
continuare a lavorare anche dopo l'età pensionabile, tenendosi
stretto il luogo in cui aveva passato gli ultimi trent'anni della sua
vita e in cui aveva tutte le sue frequentazioni. Così ebbe il
tempo di fare da testimone alla nipote ed anche da madrina di
battesimo al figlio della nipote e niente, Rosa restava operaia,
apprendista quasi, con un aumento che le permetteva a stento di
pagare i pannolini.
Altri erano i problemi di
Omar, che un giorno pareva esser stato vicino così dal sistemarsi.
Un cugino di suo padre, infatti, che parlava bene e che si era sempre circondato di brava gente,
era consigliere regionale ed era stato eletto nella commissione
trasporti. Quella posizione lo portò a stringere dei legami
abbastanza vantaggiosi con le aziende di trasporto civile su gomma,
settore che con quella commistione fetente tra privato e pubblico
(faccio il privato coi soldi pubblici) era ed è sempre il verde
giardino delle clientele.
Un posto si trovava
vacante e, siccome tutti quelli che stavano in fila aspettando di
lavorare da più tempo di Omar erano stati accontentati con qualche
contratto a progetto, il turno dello sposo venne. Gli serviva però
la patente D, quella che lo autorizzasse a guidare i pullman. Fu il
padre di Omar a finanziare l'investimento: sei mesi di scuola guida,
motorizzazione e tutto il resto, per la somma di duemila euro. Ma
intanto il vento cambiò e, invece che in poppa, il partito del cugino
ce l'aveva ormai in prua, anzi dritto in fronte. Inoltre, quella
crisi economica di cui si sentiva parlare tanto alla televisione si
tradusse infine in una realtà concreta anche in quella piccola città
di provincia, impedendo a Omar di riciclarsi altrove. Soltanto,
iscrivendosi ad un'agenzia interinale, aveva trovato lavoro come
postino, per il mese di agosto, a rimpiazzare i postini in ferie.
L'annuncio del matrimonio
arrivava poco dopo questi fatti. Quando papà Di Nardo andò a
cercare lo spumante, pensò precisamente a questo, pur versando una
lacrima: che dopo quell'investimento non fruttato, gli toccava anche
finanziare quel matrimonio, visto che i due rampolli non avevano
niente di loro e che dalla parte di lei c'era da cavare ancor meno
che un fico secco. Pertanto, per non rovinare la gioia di quel
momento ma per capire almeno quanto tempo aveva per raccimolare
qualche spicciolo (e quanto tempo avevano i due per lasciar perdere
quella pazza idea di sposarsi negli anni Dieci del XXI secolo), gli
chiese: “E quando, il dolce momento?”.
Avevano pensato, i due,
l'anno successivo, all'inizio dell'estate, perché ci fosse il tempo
di sistemare tutto, visto che partivano da zero. La sera stessa non
fu affrontato nessun altro argomento. E già mamma Di Nardo si
chiedeva: ma dove andranno a vivere? Eppure, già doveva intuire a
quale grossa croce la stesse inchiodando il figlio.
Infatti, appena
riuscirono a mettere insieme due quattrini, i signori Di Nardo, un
bel po' d'anni addietro (quando si riuscivano ancora a fare soldi in
questo santo paese), decisero di comprare un suv e di andare a vivere
in una casa che s'addicesse alla loro nuova condizione di arrivati,
di nuovi ricchi: una sacrosanta casa, singola, una villa, tirata su
da zero, col giardino intorno, lontana dai palazzi, col box auto, il
giardino e la terrazza e senza quelle altre sozzure che i loro
genitori, contadini, erano stati costretti a zappare, arare e
seminare per trarne qualche scarso nutrimento. L'ostentazione della
nuova ricchezza era tanto più grande quanto dura era stata la fame
patita. Fecero, costruirono, pagarono e, poi, pagarono una seconda
volta, col condono.
Ora, quei tre piani in
cemento armato, raffazzonati alla buona dallo zio architetto, e quei
centocinquanta metri quadrati, non erano forse troppi per mamma e
papà Di Nardo, soli, avvicinandosi alla vecchiaia? I due vecchi si
sarebbero quindi presto piegati all'idea di Omar di risistemare il
piano terra, rompendo muri, rifacendo pareti, aprendo finestre, per
farne un appartamento come si deve, dove si possa vivere e crescere
dei bambini cristianamente. E in tutta cristianità e con nuovo
abusivismo papà, figlio e parenti si diedero all'edilizia per
qualche mese.
Venne il giorno del
matrimonio e tutto andò come si doveva. Le ostriche all'ingresso del
ristorante c'erano, i duecento e rotti invitati s'ingozzarono tanto
da non poter mangiare la metà delle portate, i testimoni, secondo l'usanza un po' cafona che vigeva da quelle parti, offrirono le
fedi agli sposi. Tutti fecero mostra dei loro vestiti, molti dei
quali dovevano sfiorare, quanto al prezzo, un mese di salario della
sposa. Ma la grande novità fu che i giovani invitati regalarono agli sposi, durante il banchetto, un harlem shake, animando notevolmente la sala.
Fu così che la nuova e
felice vita di Maria Rosaria detta Rosa e Omar cominciò, in questo
inizio di XXI secolo.
Nessun commento:
Posta un commento