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martedì 24 dicembre 2013

Lontano dal fronte


Dopo che l'8a Armata britannica comandata dal generale Montgomery ha assicurato il controllo della città adriatica di Termoli lo scorso 6 ottobre, l'esercito canadese ha occupato ieri, 14 ottobre 1943, il capoluogo Campobasso, immediatamente ribattezzato da locali e militari Canada Town. Le truppe tedesche sono quindi arretrate lungo le tre linee ritardatrici preparate dal generale Kesselring: la linea Viktor, la linea Barbara e la linea Bernhard. Nei prossimi giorni l'esercito canadese riprenderà la sua marcia verso nord, incrociando la più a meridione delle tre linee, la Viktor, che permette ai tedeschi di controllare la valle del Biferno da ambo i versanti. La prossima postazione che gli Alleati dovranno conquistare è dunque quella di Oratino.

Un sole fuori stagione riscalda l'aria. La polvere è nebbia, la strada, il ciglio, l'erba, si confondono, i colori sfumano. Foglie gialle e rosse volano, la mano alza un grappolo d'uva: viola. Una macchia viva di viola. Una voce parla, mio padre si rivolge a mio zio, ma non riesco a sentire, sono troppo lontano, gli vado incontro, cammino ma non mi muovo. Il carro invece avanza, distinguo l'asino, e il viola è sempre più forte, distinguo i grappoli, acino per acino. Vedo anche il volto di mio padre, ma è solo un istante. Esplosione. Raglia, colpisce la polvere si tinge di viola. Sangue. Frantumi. Mio padre si avvicina, difforme, soffre, si regge le viscere nelle mani, viola, l'uva, mio zio, l'asino, una gamba, il volto di mio padre e ancora il viola. Mi sveglio.

Supplica
Mia madre mi guarda. Ha capito che ho fatto ancora una volta lo stesso incubo. Non dice niente e si volta. Mi alzo dalla branda senza fare rumore e senza parlare per non svegliare mia sorella. Mi vesto ed esco dalla stanza adiacente alla stalla in cui ci siamo sistemati nell'autunno del 1943, l'unico rimedio per non dormire direttamente con le bestie. Gesù sarà stato pure riscaldato dal loro alito, ma il letame puzza e a me basta doverlo spostare tutte le mattine. Mia madre prepara la colazione e divide il latte in due porzioni, per me e mia sorella: la tazza è piena quasi a metà, aggiunge una punta d'orzo e il bianco si sporca. Una crosta di pane.
Sello il cavallo che mi ha prestato Giovannino e parto. Devono essere quasi le sette di mattina, mi metto in cammino. Gli uffici aprono alle otto e devo essere il primo ad entrare. La strada è lunga, il cavallo non ce la fa, piano, s'è raccomandato Giovannino, piano piano. Ho tutto il tempo per ripensare al mio incubo e per ricostruire una volta in più tutti i dettagli di quella scena a cui non ho mai assistito. Mi chiedo se il sogno di questa notte è identico al primo che ho fatto, anni fa. Mi chiedo se riuscirò mai a capire la voce di mio padre.
Lo stesso viola, la stessa uva. La vendemmia è finita.
Da casa agli uffici di Campobasso sono circa 20 i chilometri da percorrere. Con il cavallo di Giovannino è meglio non avventurarsi per le scorciatoie scoscese. Grazie a Dio, me l'ha prestato, per andare a prendere la perizia e il responso. Dopodiché, pare che ci vogliano circa due mesi per ricevere i soldi e sarà già inverno. I lavori di ristrutturazione della casa non potranno cominciare prima della primavera prossima, 1950. Un altro inverno in mezzo alla paglia e al letame, mia sorella è più grande e lo sciroppo del medico Randalli è un buon antidoto contro la bronchite. Dovremmo resistere.
L'ingegnere Guacci mi viene incontro. Suona il clacson e alza il mento per salutarmi. La sua Fiat Giardiniera va veloce, dice che da casa sua alla centrale ci mette solo 20 minuti. Se l'è comprata l'anno scorso, nuova di zecca. Trenta milioni. Trenta milioni gli hanno dato all'ingegnere. La centrale idroelettrica ha subito ingentissimi danni, diceva il banditore. Trenta milioni, distribuiti a rate di 500 mila lire al mese, salvo la prima e l'ultima rata, di 1 milione di lire. Al bar ci sventolò davanti al naso la relazione della Direzione Generale Danni di Guerra. Poi si presentò con la Giardiniera, la prima macchina che molti di noi in paese vedevano.
Il cavallo di Giovannino è lento. Neanche un milione, neanche un milione mi basterebbe. Rimettere in piedi il primo piano, ricomprare i mobili, poterci andare a vivere. E poi comprare due animali, ché la vacca fa sempre meno latte, le galline e le pecore sono vecchie e poche. Cinque polli ci portò via il tedesco. E quando vennero i canadesi, siccome ci avevano liberato, si fecero preparare dei pranzi ricchi di carne, quella che a me mi serviva per un anno. Un maiale. Da prima della guerra non abbiamo un maiale. Serve un nuovo vitigno, devo finire di riassestare la terra, che ancora ha alcuni crateri e le schegge escono quando zappo, ripiantare degli ulivi e aspettare anni prima che diano frutti. Mamma, resisti fino all'olio nuovo.

Sopporta
L'usciere mi accoglie. Chiedo dell'ingegnere Sestito, capo della sezione V, “c'è, c'è, si sieda aspetti qui, poi la chiamo”. Sparisce. Aspetto circa mezz'ora, la gente passa, entra negli uffici, poi riesce, gira nell'altro corridoio. Dell'usciere nessuna traccia. Entro nell'ufficio più vicino, riconosco l'ingegnere, mi saluta e sorride.
Tutto pronto, è tutto pronto, mi dice. Comincia a cercare nelle scartoffie, tira fuori una cartella enorme, poi un fascicolo più piccolo, lo apre, sfoglia, si lecca le dita, sfoglia, “Tirabassi Eugenio fu Pasquale, giusto?”. Dico di sì, piano. Mi porge il foglio sorridente e dice “ecco qua”, lasciandomi il privilegio di scartare il pacco. Ci sono molte cose scritte. Individuo il mio nome e giro le pagine in cerca delle cifre. In fondo, leggo “TOTALE RISARCIMENTO 18.800”. Ingegnere, io ne avevo chiesti 700.740. Quanti soldi mi hanno dato? C'è scritto, dice, quella là è la somma. Qualcosa non va, chiedo spiegazioni. C'è tutto scritto, mi dice, legga il resto. Ho fatto la terza elementare ingegnè, se leggo io ci spicciamo domani mattina, che ci sta scritto qua?
Ho letto bene, mi dice. 18.800. Poi legge: “...la rifinitura è discreta mentre lo stato di manutenzione è cattivo. A seguito dell'occupazione il fabbricato subì danni alla muratura esterna, agli intonaci interni, ai pavimenti e a porzioni del tetto a due falde con tegole marsigliesi. All'atto del sopralluogo oltre ai predetti danni erano visibili anche quelli derivanti dallo stato di abbandono dell'immobile con le relative conseguenze dovute agli agenti atmosferici. La differenza in meno di lire 681.940 tra l'indennizzo richiesto ed il peritato è dovuta: alla quota d'uso non considerata nella parte”.
Che significa?
Che lo Stato risarcisce soltanto i danni di guerra. La sua casa è in cattive condizioni non solo per cause belliche, ma anche per cause manutentive non adeguatamente effettuate, mi segue? Quindi lo Stato non le paga sostanzialmente la manutenzione che è compito suo effettuare, ma soltanto il sinistro che tedeschi, canadesi e compagnia hanno arrecato alla sua proprietà, mi capisce?”.
Non capisco. Sto zitto. Poi protesto. Lui mi chiede se deve rileggere la relazione. Manutenzione. Penso. Ho capito bene. Poi urlo. Manutenzione. Quale manutenzione? Dormiamo nella stalla dal '43, ingegnè, so' sei anni, perché i cannoni hanno abbattuto il tetto e i muri del primo piano, manutenzione? Intonaci? Ingegnè, voi l'avete visto come stiamo, voi siete venuto, che manutenzione, ingegnè, che manutenzione?
Dice di stare tranquillo, non agitarmi, siamo in un ufficio pubblico. Non dipende da lui, lui è solo un impiegato d'ufficio, non dipendono da lui le perizie. È il geometra, il perito, poi c'è non so chi, che valuta, i valori. Provo ad arrabbiarmi ancora. Non c'è niente da fare. Con chi posso andare a parlare? Nessuno, la guerra è finita da cinque anni quasi, le pratiche vanno smaltite, quelle chiuse sono chiuse.
Non ho effettuato la manutenzione. Il cavallo di Giovannino è lento. Al ritorno ancora di più. La manutenzione. Chiedo al cavallo un altro sforzo, torno indietro, verso Sestito.

Pentiti
Quando il demonio ti tenta, tu non devi cedere così, devi resistere, Eugè, resistere di fronte alla tentazione del peccato. Lo vedi, che poi, a che ti è servito? Sono dovuto andare a parlare con l'ingegner Sestito e pregarlo di tacere la cosa, non spargere denuncia, niente. Cosa ci insegna il Signore? L'altra guancia... Eugenio, tu sei stato superbo, hai preteso di poter risolvere i tuoi problemi con la sola forza dei tuoi atti, dei tuoi gesti. Hai pensato solo a te stesso, solo alle tue difficoltà. Per fortuna l'ingegnere non s'è fatto male. Aggressione a un pubblico, a un, a un impiegato insomma. Ti mandavano in galera, se volevano, Eugè. Pure “buon lavoro” gli hai detto, uscendo, dopo che gli hai distrutto l'ufficio. E meno male che ci sto io, ché se no la galera non te la toglieva nessuno, Eugè. Ora ti assolverò anche dalle pene dell'inferno, ma tu devi pentirti sinceramente e profondamente Eugenio, contrito devi essere di fronte allo sguardo del Signore, che ti ha messo alla prova e che tu hai osato sfidarlo.

Padre, voi c'avete ragione, sono pure pentito e ho chiesto scusa all'ingegnere come voi mi avete detto, perché è una brava persona che fa soltanto il suo mestiere. Non mi sono controllato. Ma io che posso farci? Se voi vivete da sei anni in una stalla, con tutta la vostra famiglia, e poi vi dicono che i soldi non ce li dovete avere, ma voi che facevate?

Per ogni porta che si chiude il Signore ne apre un'altra. Tu volevi scegliere il cammino più facile, il Signore invece ti ha messo alla prova e adesso ti dà un'altra possibilità. Senti a me. Io sto facendo in questi giorni la richiesta per il risarcimento danni di guerra. È un poco tardi, ma ancora si possono presentare le domande. I danni non si vedono tanto, ma ce ne sono stati, e pure tanti. Però, proprio perché non si vedono tanto i danni, la relazione che ho proposto al Genio Civile... diciamo che ci stanno un po' di cose che invece stanno ancora qua, altre che sono veramente sparite, e così via. Quei canadesi sono protestanti e non appena hanno visto un poco d'oro qua dentro si sono messi tutto nelle tasche. E questa profanazione va risarcita, nel nome del Signore. Però servono un poco di testimoni. Qualcheduno già ci sta, mò se tu vuoi partecipare, io sempre ti posso dare poi una mano a rimettere qualcosa a posto, possiamo comprare un poco di materiale per la casa, e poi vediamo.

Quanto chiedete, padre Nicò?

Ma tu ci vieni a testimoniare?

Io ci vengo, ma voi quanto chiedete?

Un milione.

E a me quanto mi date?

Dieci mila?

Padre, ma io con dieci mila lire non ci compro neanche i mattoni!

Facciamo venti mila lire, Eugè. E poi, vi ho mai fatto mancare qualcosa? Lo sai che quando hai qualche problema, io qua ci sto sempre, e se non era per me adesso stavi in carcere e tua madre e tua sorella in mezzo al freddo le avevi lasciate, per chissà quanto tempo.

Non dire falsa testimonianza
Dopo l'assoluzione, padre Nicola portò Eugenio in sagrestia. Gli porse la richiesta di risarcimento danni. Disse: “Firma qua”. Eugenio chiese di leggerla prima di firmare, ma il sacerdote insistette, “firma, mò te la leggo!”.

Il sottoscritto sacerdote Nicola Iafelice di Felice residente in Oratino Via Regina Mergherita nella qualità di parroco in Oratino chiede di essere indennizzato della somma di L. 922.500 quale ammontare degli oggetti asportati, depredati o distrutti ad opera delle truppe canadesi.
Poi ci sta tutta la descrizione degli oggetti e poi la dichiarazione dei testimoni: Noi sottoscritti testimoni, maggiorenni muniti degli altri requisiti di legge e non interessati alla domanda; tenuta importanza della prova testimoniale che con il presente atto rendiamo, nonché con il vincolo religioso che in tal guisa contraiamo davanti a Dio sull'obbligo di dire la verità; tenute presenti altresì le pene severe che la legge commina ai testimoni falsi o reticenti; sotto il vincolo del giuramento che noi prestiamo innanzi a Dio di dire la verità e null'altro che la verità: affermiamo essere vero notorio e a nostra personale conoscenza che tutto quanto è contenuto dichiarato nella domanda medesima ed allegato elenco, risponde in ogni sua parte a verità. Firme dei testimoni, Oratino lì 4 novembre 1949. Poi, se vengono a chiedervi qualcosa a voi testimoni, gli dite che tutto quello che c'è scritto sulla dichiarazione è vero, che non potete ricordarvi tutta la dichiarazione per filo e per segno, ma che mancavano armadio, statue, urne in ottone e in argento, organo, ostensorio in argento, labaro, tunicelle, panche, piviale, vesti della madonna, eccetera eccetera. Mò, domenica, dopo la messa della sera, tu vieni e ci aiuti a spostare le cose che stanno ancora qua, così le mettiamo nella cripta. Lunedì o martedì viene il controllo, una formalità, ma non ci deve stare niente.

Guadagnati il paradiso
L'ispettore non si degnò nemmeno di andare a trovare Eugenio. Parlò solo con padre Nicola. Gli era puzzata, a quelli del Genio Civile, questa storia di un risarcimento tardivo, troppo tardivo e con una somma così ingente; il primo controllo non gli era bastato e un accertamento ulteriore si rese necessario.
Padre Nicola assolse Eugenio dai suoi peccati e anche dalle sue colpe sociali e civili: gli presentò una seconda testimonianza già concordata con l'ispettore, firmata e approvata. Mancava solo la firma di Eugenio, che attraverso quel verbale proferiva parola, parola che il prete e l'ispettore avevano sapientemente stilato per lui. Che faccia avrà questo ispettore? Quanto gli darà padre Nicola? Ventimila? Di più, un ispettore vale più di un contadino.
Eugenio reiterava l'elenco dei furti e dei malfatti perpetrati dai soldati. Rinforzava la tesi del padre e anche quella dell'ispettore. “Eugenio, con questa pratica risolviamo tutti quanti i tuoi problemi. C'è stata quest'altra formalità, ma andrà tutto bene. Vedrai che quest'estate al più tardi prendiamo i soldi”.

Credi
Padre Nicò, i soldi del mio rimborso sono già finiti. Ho pigliato i soldi a maggio, ho fatto due mesi di lavoro e sto come prima. Se non copro il primo piano subito, ci viene a piovere dentro e stiamo punto e a capo. Intanto la terra va lavorata, ché sennò non dà niente. Sono venuto a chiedervi i soldi del risarcimento della chiesa, padre Nicò.

Figlio mio, tu vuoi i soldi del risarcimento prima che me li hanno dati?! Qua in paese facciamo la fame tutti quanti e tu vuoi venti mila lire così, tutti di un colpo?

Un anticipo...

Ma io non ce li ho figlio mio. Già i funerali a tua madre li abbiamo fatti così. Lo sai i tuoi compaesani quanto danno alla parrocchia per i funerali di un caro?! A te non ti ho chiesto niente. Mò, abbi pazienza, ché quando arrivano i soldi te li porto io.

Ama il prossimo tuo
Chicken, chicken, meats and milk.
Era freddo e grigio. Diametro, mi pareva un centimetro. Parlava americano e io non capivo. Altri cinque soldati giravano intorno, il ferro premeva sulla guancia, era freddo. Mia madre affianco, mia sorella nella stalla strillava. C'era un soldato in meno e il ferro premeva sulla guancia. Mia madre piangeva, io mi sono pisciato addosso. Chicken. Mi hanno detto che significa pollo in americano. E infatti presero i polli e se li fecero ammazzare da mia madre. Kill. I giorni successivi, hanno voluto il vitello e ogni sera mia sorella. La casa era calda e la legna già scarsa, troppo scarsa per il mese di ottobre. Poi sono venuti a cercarli e sono ripartiti per fare la guerra. Intanto mia sorella aveva voglia di ammazzarsi e ha resistito solamente per l'affetto di mia madre. Tutti dovevamo adesso resistere, resistere ancora per non crepare sotto le bombe, sotto il freddo, sotto la fame.

Sospetta
Secondo Giovannino, padre Nicola ha ricevuto i soldi. E noi testimoni non ne sappiamo nulla. Non ci ha chiamato. Giovannino dice pure che ne è sicuro, che ha visto la posta di padre Nicola e che c'era la lettera del Genio e che qualche giorno dopo padre Nicola è andato all'ufficio postale per ritirare i soldi. E non ci ha pagato. Secondo Giovannino non è giusto. Non è giusto. Io non resisto più, sta arrivando l'inverno, mia sorella è muta e malata. La casa sta diventando una tomba scoperchiata.

Espia
Il giudice Galli si era guadagnato subito la fama che meritava. Quella del castigatore. E infatti andò a trovare Eugenio, lui. Si presentò con un pastrano beige, dei pantaloni stirati con la piega. Una persona a modo, che si tolse il borsalino entrando in casa. Eugenio lo imitò e si tolse la sua coppola, per rispetto. Quindi il giudice gli spiegò che la pratica di padre Nicola era stata riaperta a risarcimento avvenuto. In effetti, il giudice l'aveva fatta scivolare nei suoi fascicoli, diffidando del lavoro del Genio. “Lei capirà, signor Tirabassi, dopo la fine della guerra ci sono stati numerosi tentativi di truffa da parte di chi presentava delle richieste di risarcimento. Nella sua regione, il Molise, si sono registrate delle anomalie e sembra che le richieste complessive dei molisani abbiano oltrepassato il patrimonio presente in regione...” Il giudice mosse leggermente la sua bocca e accennò quello che poteva sembrare un sorriso. Ma non lo era. Il giudice amava semplicemente fare delle pause durante i suoi discorsi e interrogatori, un modo come un altro di mettere sotto pressione l'interlocutore debole, impressionato da una persona così distaccata e cinica, che può condannare con il tono della noia quotidiana, della routine morbosa. “Insomma, al governo qualcuno ha storto il naso di fronte a questa esagerazione. Deve sapere che a chi legifera nei palazzi romani sta bene che si rubi, purché si rubi con decenza e nel rispetto di certi limiti. Il mio ruolo è proprio questo: ristabilire il limite. Rivalutare le pratiche ormai chiuse e pagate... Ha un bicchiere di latte?” Eugenio si alzò, chiamò la sorella, il giudice la guardò e ricevette il bicchiere sfiorandole le mani. “Dopo questo preambolo, lei avrà forse capito qual è il motivo della mia visita. La pratica per il risarcimento danni alla parrocchia, in cui lei si è costituito testimone, fa parte di quelle controllate da me e dai miei uomini. Il parroco, padre Nicola, ha chiesto quasi un milione di lire cinque anni dopo la fine della guerra. È evidente che una tale incongruità ha attirato la mia attenzione. È stato un po' ingenuo, da parte di questo parroco, poter pensare che la sua richiesta passasse inosservata. E mettiamoci anche che gli organi dello Stato sono stati particolarmente clementi nei confronti di quelli ecclesiastici e che i vescovi ci hanno già interpellato affinché non si facciano scandali, ma... capisce?”
Padre Nicola non è un ladro, signor Giudice.”
Sono d'accordo. La guerra è stata dura. E per questo abbiamo tutti diritto a un'esistenza e un futuro migliore. È questo il senso della democrazia. Lei stesso ha usufruito degli aiuti dello stato per ricostruire la sua casa, i cui lavori mi sembrano bene avanzati d'altronde e me ne complimento con lei. Ma, vede, il principio della democrazia è anche che ognuno abbia un po' e che non ci siano alcuni che abbiano troppo. Ecco, padre Nicola vuole troppo, troppo, al di là del limite della decenza...” Il giudice guardò Eugenio negli occhi per persuaderlo e, insieme, imporre la sua impavida autorità. “Una buona parte degli oggetti che le truppe alleate avrebbero portato via dalla chiesa non sono mai esistiti e infatti non figurano negli inventari della parrocchia, che pure sono dettagliati. Oggetti, peraltro, di cui difficilmente un fedele potrebbe testimoniare l'esistenza. Lei ha mai realmente constatato, prima della guerra, l'esistenza di un calice d'oro chiuso nell'armadio della sagrestia? E del piviale? Lei sa cos'è un piviale, signor Tirabassi?” Silenzio, come un allievo di fronte al maestro. “Mi scusi, non voglio metterla in difficoltà... Lei conosce i comandamenti? Ce n'è uno, mi sembra, che recita “Non dire falsa testimonianza”. È l'ottavo, credo. Ecco, la invito ad estendere questo comandamento anche alle dichiarazioni ufficiali, in cui la falsa testimonianza è un peccato, nella stessa maniera. Solo che invece di “peccato” noi giudici amiamo usare la parola “reato”. E le pene non le infligge Dio per l'oltretomba, ma noi giudici per questa vita. Le assicuro che le pene inflitte da noi giudici non hanno niente da invidiare in efficacità a quelle divine, signor Tirabassi.” E prima dei saluti: “Quanto vale la sua parola? Quanto è costata la sua testimonianza?”
Niente.”
Spero almeno che non sia vero. Comunque noi abbiamo deciso di riprenderci i soldi che il suo parroco ha rubato. Ora, lei può scegliere: o ci aiuta, confessando di essere stato corrotto, e in tal caso io la lascio in santa pace senza mettere le mani sui soldi che il prete le ha dato; oppure resiste alla nostra azione, continua a mentire per difendere il parroco, e in tal caso la porto in tribunale per aver dichiarato il falso e ci riprendiamo anche i soldi.
“Ma io quei soldi non ce li ho.”

Resisti
I passi di un cane, l'odore del fumo dei camini, la luce tenue dei lampioni. Le scarpe scivolano sulla pietra umida, bagnata, annebbiata la mente pensa a quello che c'è da fare, stasera, in questo paese bianco, bianco immacolato, bianco bagnato cerco angoli d'ombra, nessuno per strada, solo sento freddo, umido e il rumore dei passi di cane, il cane della panettiera, sta per girare l'angolo, scivola la pietra bagnata, ecco Giovannino, ha la sciarpa di sempre, un cappotto, gli occhi cattivi, vedo la mia rabbia nella sua, pure lui vuole i soldi, pure lui ha testimoniato, pure lui ha la faccia scavata, la nebbia ci separa. Michele Fatica sta schiattando, a domani non ci arriva e padre Nicola è andato a casa sua per l'estrema unzione. Andiamo, quello che dobbiamo fare. Il vicolo è stretto e l'odore dei camini s'incanala, l'umido attreversa i cappotti. Ho la testa bassa, i passi corti e veloci si dirigono verso la casa parrocchiale. Giovannino apre il cappotto, prende il piede di porco, sfonda il portone, poi richiude. Siamo dentro. La luce della notte illumina appena l'ingresso, poi le scale e il piano superiore. Non ci ero mai venuto, in casa di padre Nicola. Il confessionale, le navate, la cripta. Mai la casa. Sono deluso dall'odore di questa casa: né d'incenso, né di cera, né di fiori, né di ostia. Odore di una casa, triste, unicamente una casa. Giovannino è deciso, ha fretta, le sue mani spostano i mobili scoprono angoli della stanza da letto del prete e il letto. Sotto il letto, guarda sotto il letto mi ordina Giovannino e io guardo nel comodino: sopra: una Bibbia, sotto, dietro un Vangelo: un foglio illustrato con una donna sopra, un vestito stringe i seni, le braccia nude alzate sopra la testa, sorride e mi guarda bionda, dice “Rita Hayworth in Gilda”, Giovannino guarda la donna ride e si eccita padre Nicola guardando questo foglio, si masturba. “Sbrigati,” dice Giovannino. Sbrigati. Ancora non troviamo i soldi. Strappa il foglio e il corpo della donna è in mille pezzi, non ha più niente di erotico, è solo carta. Tutto è sottosopra, poi un rumore e ancora nessuna traccia dei soldi. Apre la porta, poi niente, si ferma e riparte piano, accende una luce all'ingresso, aspetta e grida “chi c'è?”, ci guardiamo, entra, ha afferrato qualcosa, sale le scale e ci guardiamo io e Giovannino va verso la finestra sale sul davanzale si guarda intorno cerca un appiglio poi scivola via nella nebbia e non lo vedo più a Giovannino, sono solo, padre Nicola entra in stanza, tutto è per terra, mi vede, si stupisce, forse, “che fai? che cerchi?” mi guarda, lo guardo, ho vergogna, ha un bastone in mano, quello che devo fare, comincia a picchiarmi, il piede di porco, lo prendo, rapido, le tempie, il cranio produce un rumore deciso quando si frantuma. Sangue schizza rosso, viola, colpisco ancora, più volte, sento una voce, la sua che rantola e non dice nulla, soffre questo prete che sto provando piacere ad ammazzare. Il pavimento è sporco e appiccicoso di mosto violaceo, come nel mio incubo, come il sangue di chi non ha resistito all'urto di questa guerra che state conducendo contro di noi, contro la povera gente come noi, un mosto violaceo che ha un gusto dolce, più dolce dei miei incubi, la dolcezza che sto gustando nell'ammazzare questo ricco prete, padrone della mia anima. Muori. Cerco i soldi su di lui, nelle mutande il mazzo di banconote odorano del suo pene e vado via, il viso di Rita Hayworth è straziato, strappato, difforme. Vado verso la finestra, seguo il percorso di Giovannino. Verso casa.

Racconto (molto) liberamente immaginato a partire dal libro Oratino nella Seconda Guerra mondiale di Roberto Colella.

domenica 12 maggio 2013

Racconto di un matrimonio, in questo inizio di XXI secolo


Quando mamma Di Nardo sentì dalla viva voce del proprio figlio, Omar, che lui e la sua fidanzata avevano deciso di sposarsi, lei versò una lacrima di gioia. E il padre, che ora vedeva la speranza di diventar nonno molto più vicina e concreta, se ne andò a cercare una bottiglia di spumante per brindare e per nascondere la sua, di lacrima.
Tuttavia, quando mamma Di Nardo sentì dalla viva voce di Omar che lui e Rosa avevano deciso di sposarsi, lei pensò immediatamente alla matassa ingarbugliata che quel matrimonio avrebbe creato. Mamma Di Nardo e anche papà Di Nardo, infatti, sapevano bene che quei due, per sposarsi, non c'avevano una lira, o un centesimo come avevano imparato a dire da un pò di anni a questa parte. E senza soldi e senza casa – si chiedevano i due quando il figlio e la futura nuora finirono di cenare e se ne uscirono – che matrimonio s'ha da fare?
Certo, Rosa lavorava come parrucchiera. Ma lavorava nel salone della zia, in nero e per 400 euro al mese, nella speranza che la zia un giorno andasse in pensione, o schiattasse, lasciandole l'attività, le attrezzature, i clienti e, si sperava, anche i guadagni. Ma la zia doveva ritenere che questi ultimi, benché scarsi, fossero abbastanza soddisfacenti per continuare a lavorare anche dopo l'età pensionabile, tenendosi stretto il luogo in cui aveva passato gli ultimi trent'anni della sua vita e in cui aveva tutte le sue frequentazioni. Così ebbe il tempo di fare da testimone alla nipote ed anche da madrina di battesimo al figlio della nipote e niente, Rosa restava operaia, apprendista quasi, con un aumento che le permetteva a stento di pagare i pannolini.
Altri erano i problemi di Omar, che un giorno pareva esser stato vicino così dal sistemarsi. Un cugino di suo padre, infatti, che parlava bene e che si era sempre circondato di brava gente, era consigliere regionale ed era stato eletto nella commissione trasporti. Quella posizione lo portò a stringere dei legami abbastanza vantaggiosi con le aziende di trasporto civile su gomma, settore che con quella commistione fetente tra privato e pubblico (faccio il privato coi soldi pubblici) era ed è sempre il verde giardino delle clientele.
Un posto si trovava vacante e, siccome tutti quelli che stavano in fila aspettando di lavorare da più tempo di Omar erano stati accontentati con qualche contratto a progetto, il turno dello sposo venne. Gli serviva però la patente D, quella che lo autorizzasse a guidare i pullman. Fu il padre di Omar a finanziare l'investimento: sei mesi di scuola guida, motorizzazione e tutto il resto, per la somma di duemila euro. Ma intanto il vento cambiò e, invece che in poppa, il partito del cugino ce l'aveva ormai in prua, anzi dritto in fronte. Inoltre, quella crisi economica di cui si sentiva parlare tanto alla televisione si tradusse infine in una realtà concreta anche in quella piccola città di provincia, impedendo a Omar di riciclarsi altrove. Soltanto, iscrivendosi ad un'agenzia interinale, aveva trovato lavoro come postino, per il mese di agosto, a rimpiazzare i postini in ferie.
L'annuncio del matrimonio arrivava poco dopo questi fatti. Quando papà Di Nardo andò a cercare lo spumante, pensò precisamente a questo, pur versando una lacrima: che dopo quell'investimento non fruttato, gli toccava anche finanziare quel matrimonio, visto che i due rampolli non avevano niente di loro e che dalla parte di lei c'era da cavare ancor meno che un fico secco. Pertanto, per non rovinare la gioia di quel momento ma per capire almeno quanto tempo aveva per raccimolare qualche spicciolo (e quanto tempo avevano i due per lasciar perdere quella pazza idea di sposarsi negli anni Dieci del XXI secolo), gli chiese: “E quando, il dolce momento?”.
Avevano pensato, i due, l'anno successivo, all'inizio dell'estate, perché ci fosse il tempo di sistemare tutto, visto che partivano da zero. La sera stessa non fu affrontato nessun altro argomento. E già mamma Di Nardo si chiedeva: ma dove andranno a vivere? Eppure, già doveva intuire a quale grossa croce la stesse inchiodando il figlio.
Infatti, appena riuscirono a mettere insieme due quattrini, i signori Di Nardo, un bel po' d'anni addietro (quando si riuscivano ancora a fare soldi in questo santo paese), decisero di comprare un suv e di andare a vivere in una casa che s'addicesse alla loro nuova condizione di arrivati, di nuovi ricchi: una sacrosanta casa, singola, una villa, tirata su da zero, col giardino intorno, lontana dai palazzi, col box auto, il giardino e la terrazza e senza quelle altre sozzure che i loro genitori, contadini, erano stati costretti a zappare, arare e seminare per trarne qualche scarso nutrimento. L'ostentazione della nuova ricchezza era tanto più grande quanto dura era stata la fame patita. Fecero, costruirono, pagarono e, poi, pagarono una seconda volta, col condono.
Ora, quei tre piani in cemento armato, raffazzonati alla buona dallo zio architetto, e quei centocinquanta metri quadrati, non erano forse troppi per mamma e papà Di Nardo, soli, avvicinandosi alla vecchiaia? I due vecchi si sarebbero quindi presto piegati all'idea di Omar di risistemare il piano terra, rompendo muri, rifacendo pareti, aprendo finestre, per farne un appartamento come si deve, dove si possa vivere e crescere dei bambini cristianamente. E in tutta cristianità e con nuovo abusivismo papà, figlio e parenti si diedero all'edilizia per qualche mese.
Venne il giorno del matrimonio e tutto andò come si doveva. Le ostriche all'ingresso del ristorante c'erano, i duecento e rotti invitati s'ingozzarono tanto da non poter mangiare la metà delle portate, i testimoni, secondo l'usanza un po' cafona che vigeva da quelle parti, offrirono le fedi agli sposi. Tutti fecero mostra dei loro vestiti, molti dei quali dovevano sfiorare, quanto al prezzo, un mese di salario della sposa. Ma la grande novità fu che i giovani invitati regalarono agli sposi, durante il banchetto, un harlem shake, animando notevolmente la sala.
Fu così che la nuova e felice vita di Maria Rosaria detta Rosa e Omar cominciò, in questo inizio di XXI secolo.

venerdì 18 gennaio 2013

Nascita di una nazione

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Piccolo dialogo teatrale per un esercizio di riscrittura di alcuni motivi shakespiriani. Due personaggi femminili, Lady Lavinia e Margareth.

Lady Lavinia: Margareth, vieni Margareth...! Margareth, cosa ne pensi di questi bicchieri? Non credi che il vino si rifletta male sul vetro e appaia troppo scuro?

Margareth: No, Lady Lavinia. In questo tipo di bicchieri il vino somiglierà a del sangue vivo.

L.: E i piatti, non sono troppo larghi?

M.: No, mia signora, li riempiremo di carne a sufficienza...

L.: Bene, e tra quanto tempo i preparativi per il pranzo di benvenuto saranno pronti ?

M.: Tra non molto... Quando ho lasciato la cucina Grace e Mary dicevano che la carne era pronta. E adesso stia seduta, signora. La vita che vive in lei è stanca. Si sieda. Durante il pranzo io le servirò un bicchiere di vino: lo beva, per dare forza al bambino. Ma beva solo il vino che io le servirò.

L.: Grazie, Margareth. Tu e Grace e Mary siete la mia forza. Durante questi anni, voi siete state la mia gioia, le mie amiche, le mie amanti. Grazie.

M.: Al suo servizio, mia signora.

L.: Sei anni, Margareth...

M.: E sei mesi e sei giorni...

L.: Stamattina mi sono alzata e ho pensato a questi ultimi sei anni. Questa casa ha visto il suo padrone... quante volte? Cinque, sei volte? L'uomo che ha costruito questa casa intorno al nostro letto. Ora sta tornando e il vino scorrerà su questa tavola come il sangue dei nemici sul campo di battaglia.

M.: La tavola sarà un fiume rosso, signora.

L.: Sei colpi, Margareth. Delle ferite dal braccio al cuore. Ed ha scelto di restare sul campo di battaglia, nonostante le ferite. Non è morto e il suo potere non si è indebolito. Si è accresciuto.

M.: Lei non era ancora incinta, signora. Un uomo di potere non può lasciare questo mondo senza una successione. Soprattutto se il successore deve essere glorioso.

L.: Quando i dottori dissero che non potevo dare la vita a nessuno...

M.: I dottori posseggono solo la metà della conoscenza. E lei aveva bisogno dell'altra metà.

L.: Mi avete cercato.

M.: Il destino del suo popolo e di suo marito lo richiedeva.

L.: Sopravvivrò al parto?

M.: Non dipende da noi, ma da Lui. Egli è l'unico padrone del suo corpo e della sua anima.

L.: E che cosa dice? Dopo la mia morte, non tradirà mio figlio?

M.: No, mia signora. Non tutti i figli hanno bisogno di succhiare il latte dal seno della madre.

L.: E mio figlio glorificherà sempre il padre?

M.: Il nome di suo padre sarà il nome del paese che fonderà.

L.: E il paese prolifererà come ho chiesto a Lui?

M.: Il suo sacrificio sarà stato un prezzo onesto. Suo figlio non sarà un soldato, come suo padre. Le sue mani rimarranno pulite, linde. Non avrà il potere delle armi, ma quello del linguaggio. Il padre ha ucciso con la violenza, il figlio ucciderà con le parole. Avrà dodici figli, da dieci donne differenti. I suoi figli prolifereranno su un territorio conquistato, fonderanno delle colonie e le colonie diventeranno un paese, un paese glorioso. Questo è il Suo volere.

L.: Oh Margareth, se ancora avrò la forza di ricordare dopo la mia morte, mi ricorderò di te.

M.: E così sia, mia signora.
Ma questo non è il momento d'addio, ma di benvenuto. Suo marito sta arrivando. Mi scusi, devo lasciarla...
Grace, Mary, il vino, il vino, prendete il vino e versatelo nei bicchieri. Abbondanza nella casa in cui sta per nascere il Padre di una Nazione!

sabato 15 dicembre 2012

L'Aquila (esercizio di trasposizione delle streghe di Shakespeare, MacBeth).

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Two characters: Mr. Wilson (W), the chief of police, and Mr. Bradbury (B), the president.

B: Welcome Wilson.

W: Good morning Mr. Bradbury.

B: Come in, sit down. So, tell me.

W: So, uhm... it's not easy... you know, last week, you told me that I had to create, to do, well, to put pressure on them and...

B: Yeah, I know, so go ahead...

W: So, I placed some policemen at the entries of the camp zone. They have cars and weapons and guns, as if we were at war.

B: Well. And what did the people say?

W: Some of them said that it was not fair, that it were not normal to be held captive by the army after these events and they didn't want to stay forever in their camp, but... this is not the point.

B: And what's the point?

W: The point is that we brought people under control, we divided them into several camps and put policemen and the army around the camp and around the destroyed town too. But... someone is still living in the town.

B: Ok, and did you find him yet?

W: No, we didn't find it; or, yes, I found it, but I didn't catch it, I didn't may catch it.

B: Good, you will keep looking and when you do find him you'll explain to him another time that he has to play safe, that it's dangerous to stay in town and that we must take him to the camp. I can picture him, the kind of old man who doesn't want to leave his flat, his cat and, maybe, his books. So, let him understand that he must follow you...

W: No, sir. It's not accurate, I think. It's not a man. It's not somebody... They are not one and they are not...

B: Animals? I don't care about animals. The question is that people must stay in the camp and they have to feel protected.

W: No, sir. Listen... Two days ago a soldier who was guarding a little access to the town broke his leg because of these beings. He saw someone walking in the street, so he followed it crying “stop!”, “alt!”, but when the soldier turned the corner, the subject had disappeared. The soldier called him, “Hey man! It's dangerous, bricks and tiles could fall on you!”. But a big rock arrived on him as a bowling ball and he fell down. He also told that he saw its coat disappearing behind a wall.

B: Uhm...

W: I immediately started the search for the man, or what we believed was a man. We were ten men searching in the town. At the same time, two men saw him, with the same aspect: black coat, long black hair. My men tried to follow them, but they failed. I remained lonely in the main square and I saw it, the fugitive, behind a column of the town hall's archway, or what remains of it after this big earthquake. But when I arrived under the archway, it wasn't there anymore and I just had the time to avoid a block of marble. After that, I saw it walking towards a street.

B: What a story you tell me... in the army you use too much drugs.

W: No, sir. It was not an hallucination.

B: But, when you evacuated the town, nobody remained. We just counted dead persons or refugees in the camps. There wasn't any missing person...

W: You're right. No missing persons. But the beings whom I'm speaking of are not survivors nor missing.

B: What's your ghost story, Wilson!

W: Listen to it, sir. I saw it walking towards a street on the right side of the town hall. I followed it and it turned to the left, then took a right and a left again. When I got there it had disappeared. I waited and he came back and looked to me. I saw its face and it wasn't a human face. It looked like a woman, but it wasn't. It was looking at me and I thought that it was going to kill me just by looking, with its white empty and deep eyes. Its face was marked by too many winters, as many winters as death saw. No, sir. It was not human. It began running again towards the destroyed and deserted town and I followed it, but I couldn't catch it. I was exhausted. I followed it within the medieval centre town and in all dead-ends and streets. I followed it, and I had the impression that it passed through walls and changed place without moving. I followed it for the whole day and the night came down; I followed it for the whole night and the dawn came up. I followed it for another day and another night and it never stopped, this creature of ruins. I followed it to the church. Sunshine entered yet by the fallen roof and the altar had never seen so much light. It came down and I rejoined it in a dark crypt. There, I saw them, the three beings, around an altar and a tabernacle and between columns. I saw them, Mr. Bradbury, I was in front of them, three inhuman beings and I was afraid, terrified of dying. I spoke as if it was the last words I would said: “What are you?”
“Just voices, Wilson. Just voices. We are the lost souls of this dead town. Bradbury is the new king of a new town, another dead town, that he built up with his business men. And you assure his power on people. But he will let you down, Wilson. He will ask you to put more and more pressure on people, he will ask you to kill people. He will ask you to be a cruel warrior. Than, he will punish you for your misfortunes. He will appear to people as the clement and estimated liberator. And you, oh Wilson, what a bad fate... Bradbury will let you down. You are just a tool, Wilson”.
That's what they said, Mr Bradbury.

B: This is literature, Wilson. What's your strategy?

W: I don't care if this is fiction or not, Mr Bradbury. But the oracles have spoken and events can't keep going as they were before their speech. So, I propose you a strategy. I will put more pressure on people, as you want. I will kill people, as you want. I will perform your terror strategy and I'll let you punish me. But, just on one condition: the punishment will be a fiction, a novel, a tell story. I'm tired, Mr Bradbury. I'm not interested in glory. I just want to live peacefully in this island not far from Sardinia where I'm trying to buy a villa. I let you the glory, you assure to me the villa and a private income. It's not a fiction, Mr Bradbury.

venerdì 9 novembre 2012

105 Grotte Celoni Termini

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Ripercorrere per la seconda volta nello stesso giorno il tragitto del 105 non era una cosa abituale per te. Giardinetti, Centocelle, Torpignattara, un'ora di semafori, di macchine di traverso, di strade troppo strette e persone troppo incazzate. Ripercorrere per due volte nello stesso giorno quel percorso significava avere qualcos'altro da fare in città oltre al lavoro, il solo lavoro che eri riuscita ad ottenere dopo mesi di ricerca e che la tua laurea in ingegneria meccanica era riuscita a darti in Italia, cioè donna delle pulizie, anzi la signora che rifà i letti, perché così il concierge non aveva l'impressione di sporcarsi la bocca con quelle parole che parlavano di te.
Ripercorrere per la seconda volta nello stesso giorno il tragitto che ti portava dal quartiere al centro di Roma significava avere qualcos'altro da fare in città oltre a pulire le stanze di un hotel di lusso sporche degli stessi liquidi e delle stesse secrezioni di qualsiasi altro hotel, in cambio di tre euro all'ora, delle avances di quel congierge che aveva passato i due terzi della sua vita in réception e di nessun contratto. In città, ci avevi portato qualche volta i tuoi figli, con un pallone e un passeggino, a Villa Borghese, passando dall'hotel per non perderti, ma dopo che ti eri fatta fermare da quel carabiniere e ti eri sentita gli occhi di tutti puntati addosso non ti sentivi a tuo agio e preferivi restare nel quartiere.
Erano pochi i motivi per cui si andava in città, a parte un cattivo lavoro in ambienti di lusso. E se non si andava a lavoro, o si andava a Termini oppure c'erano rogne. Mentre il 105 tagliava in direzione della Prenestina sul Ponte Casilino, pensavi da una parte che i ragazzi del Circolo degli Artisti non ti avevano più chiamata per dare una passata ai vespasiani la domenica mattina, dio santo che puzza, e dall'altra che, nel tuo caso, erano rogne. E pensavi anche che, questa volta, te l'eri meritate.
Mentre il mezzo sul quale viaggiavi ti avvicinava, per la seconda volta nello stesso giorno, alle mura aureliane, ripensavi al discorso che ti eri preparata, alla scaletta, a quelle tre o quattro frasi e parole chiave che ti sembravano convincenti, da dire davanti a quelle persone, dio sa in quanti ti aspettavano; macché aspettare, chissà se si presenteranno.
E mentre cercavi di riflettere al futuro prossimo, imminente, il ricordo di qualche giorno fa, quando ti sei cacciata in quel pasticcio e non hai saputo tenere la bocca chiusa, è ancora fresco. Ti mordi la lingua e ti dici che è la prima e l'ultima volta che ti prenderai questa responsabilità e che se dovesse andare male, meglio cosi': non ci sarà più da tornarci, in città. Se non per lavoro.
Ti mordi ancora la lingua e pensi che, tutto sommato, è una buona occasione quella che ti si presenta e che dovresti sfruttarla, per il bene di tutti. Pensi anche che potrebbe essere una trappola, di quel consigliere, quel giovane di cui non ti sei mai fidata, che è venuto a parlare nel quartiere qualche settimana fa e per colpa del quale ti sei cacciata in questa situazione. L'avvocato delle cause perse, te l'ha detto tuo marito, ti sei messa a fare l'avvocato delle cause perse, come se non ne avessimo già abbastanza.
Non ti sei mai fidata di quel ragazzo, e fai bene, ti direi io. Uno che va da gente che non puo' votarlo, o è un fesso, o ha secondi fini.
Ma quando i ragazzi di quel centro sociale in fondo alla strada, la stessa lunga strada lungo la quale si trova il casermone in cui un ufficio del comune ti ha assegnato un alloggio popolare, a 12 km e un'ora mezza dal centro, cioè dal tuo posto di lavoro, e in cui vivi da non sai più quante manciate di anni, abbastanza per aver ripulito il tuo italiano da qualsiasi accento sgradevole alle orecchie del concierge e qualche migliaio di cessi sparsi tra piazza Fiume e Circo Massimo, i ragazzi del centro sociale hanno organizzato un'assemblea di quartiere e te l'hanno fatto sapere tramite un volantinaggio selvaggio in tutte le cassette della posta e un attacchinaggio che puzza di colla a tutte le fermate degli autobus, compresa quella dove scendi ogni giorno di ritorno dall'hotel a cinque stelle dove di mestiere fai la signora che rifà i letti. Fai una telefonata a tuo marito per dirgli di scaldare quel paio di avanzi dell'Aid che trova in frigo, sul secondo ripiano dal basso, in fondo a sinistra, stanno lì da due giorni, bisogna mangiarli comunque, e gli spieghi che avresti fatto un salto all'assemblea, per vedere, sentire, sì, insomma, sapere cosa si dice.
Visto l'attacchinaggio e il volantinaggio, t'aspettavi un'affluenza più numerosa e invece in quello stanzone non c'è maniera di passare inosservati. E meno male, perché lo stanzone non sarebbe mai stato abbastanza grande se soltanto un'ala intera del casermone in cui abiti fosse andata all'assemblea.
Se soltanto ci fossero stati più partecipanti, ti dici a bordo del tuo 105 con i cui sedili hai ormai familiarizzato, avresti forse avuto qualche possibilità in meno di intervenire e qualcuna in più di startene in silenzio. Come tuo marito ti rimproverava di non aver fatto. Così, quando quel giovinotto dai capelli biondi, il jeans strappato e gli occhiali vi spiegava (parlando in un italiano storpiato, adattato a voi stranieri, tanto che a un certo punto hai pensato che fosse un po' dislessico) che c'era la maniera di far sentire la propria voce in comune, che c'era un'iniziativa dell'opposizione, accettata dalla maggioranza, di aprire le “consultazioni di quartiere”, una sorta di organo consultivo in cui i cittadini prendevano la parola per spiegare i problemi del proprio quartiere, fare richieste, lamentele, proposte, e cosi' via.
Appena uscita dall'assemblea, ti sei detta che questi organi consultivi non servono mai a nulla, sono dei finti eventi politici che guadagnano un paio di colonne sui giornali locali un paio di volte alla settimana e un paio di virgolettati per qualche candidato, e che tutto si risolve in un insieme di cartastraccia senza seguito. Ti dici anche gli altri l'avevano già capito e avevano fatto bene a disinteressarsi della cosa, a dire che era ora di tornarsene a casa dopo un giorno di lavoro. Ti dici anche che non avresti dovuto essere così caparbia nel dire che almeno una volta, almeno quella volta che la parola ci veniva data, per la prima volta, dopo che il loro quartiere era conosciuto solo per i tunisini che spacciano, per i rumeni che stuprano, per le donne che non si tolgono il velo, per i senegalesi che s'incazzano per i permessi di soggiorno, per questo o per quest'altro che scrivono ogni giorno i giornali su di noi senza essere mai venuti a chiederci cosa ne pensassimo; almeno una volta, questa volta che il nostro avviso veniva chiesto e che questo ragazzo di un qualche partito di sinistra che vi trattava bonariamente come dei deficienti temendo che non capiste né la lingua italiana né la democrazia (o qualcosa che ci si avvicina ogni giorno di meno in questo paese), almeno questa volta non bisognava scomparire come ogni giorno fanno gli immigrati in questo paese e che bisognava presenziare, rappresentare.
Ed essendo l'unica di questo parere, tutti concordarono in plebiscito che la rappresentante dovessi essere tu, ad andare e portare il loro avviso, senza che nessuno te l'avesse dato. A rappresentare tutti, senza che nessuno ti chiedesse di essere rappresentato.
Mentre arrivavi a Termini, ripetevi il discorso a memoria, come concordato con i ragazzi del centro sociale. Le due tre frasi convincenti, e le parole, che ti eri preparata erano ben fisse nella memoria. Cercavi di immaginare le facce delle persone che ti avrebbero ascoltato e te le immaginavi tutte come quella del concierge, cioè gonfie. Immaginavi, o forse me li sto immaginando io, la faccia di tutti quegli uomini: il segretario del consiglio comunale, qualche consigliere e una manciata di tecnici, più una troupe di giornalisti di un paio di agenzie e qualche testata, insomma, la faccia di tutti quegli uomini guardarti perplessi, non sapendo come prenderti.
Cercando il nuovo autobus hai controllato che la tua borsa fosse ancora chiusa e che la camicia stesse composta sotto la cintola dei pantaloni. Controlli come sei vestita per l'ennesima volta, anche ora che non puoi più cambiarti, e ripensi a quel giorno durante il tuo primo mese di lavoro, quando il concierge dalla faccia gonfia e sudata ti ha chiesto perché non ti mettevi il velo, Mara, perché non te lo metti il velo. Ti eri ormai abituata al nuovo nome che a Roma ti avevano affibiato perché erano troppo pigri per chiamarti come si deve, Rahma, senza invertire le sillabe (non dico metterci pure un'acca aspirata). Ti eri ormai abituata a tante cose, come il 105, ma quella domanda sul velo non l'avevi capita e non avevi risposto. Ma te ne saresti resa conto presto, cara Rahma, che gli italiani si aspettano da una donna marocchina (e l'equazione dice: quindi araba, quindi musulmana) che sia fedele, casalinga, sottomessa e col velo. E vaglielo a spiegare che le donne della tua famiglia, da generazioni, portavano i capelli sciolti, senza foulard, turbanti, cappelli, cappucci o altri copricapo d'ogni tipo.
Vaglielo a spiegare, vaglielo a spiegare, Rahma. Vaglielo a spiegare a questi uomini che non sanno neanche ascoltare le donne con cui si vedono da anni tutti i giorni. Vaglielo a spiegare a questi uomini che non sanno ascoltare. Vaglielo a spiegare a questi uomini che non hanno mai abbandonato la propria réception per paura di cambiare idea e di cambiare se stessi.
Ma sto parlando io, Rahma. Sto parlando ancora io, Rahma.

lunedì 22 ottobre 2012

Conversazioni con Tarik

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Avevamo girato per un'ora e mezza, prima di raggiungere l'indirizzo della greca albanese. Avevamo fatto nove o dieci volte il giro intorno agli stessi rondpoint e alle stesse rotonde, prima di capire che lo Chemin du Vallon des Pins cominciava tra un albero di fichi e un muretto di calce e pietre, intersecandosi con un altro piccolo Chemin, da imboccare nella giusta direzione a livello di una fourche, raggiungibile attraverso la strada a destra della seconda rotonda. Seguendo alla lettera le istruzioni della proprietaria di casa, saremmo dovuti arrivare a destinazione senza problemi.
Accompagnare la greca albanese in quell'angolo di città che non pareva più città né Marsiglia, tra l'Hôpital Nord e il villaggio di Saint-Antoine, un paesino inghiottito tra l'autostrada e i casermoni popolari controllati ventiquattro ore su ventiquattro dalle sentinelle della malavita, ci era costato fatica e improperi contro chi aveva preso quell'indirizzo e l'aveva infilato nei nostri arrivi giornalieri. Ma io, che ero pagato all'ora, gioivo per ogni disguido.
Depositata la greca col passaporto albanese, Tarik era tornato di buon umore e si rivolgeva all'altro studente che scarrozzavamo a bordo della navette, Mehdi. Gli chiese sorridente come fosse attualmente la situazione in Tunisia.
“Abbiamo fatto la rivoluzione e ne hanno approfittato”. Come sempre, le rivoluzioni non le vincono mai quelli che le fanno. Ma non dissi nulla, perché la massime sono per i saccenti che vorrebbero poter insegnare la Storia.
Tarik si chiese ad alta voce com'era stato possibile, come mai anche i tunisini, loro che sono più istruiti e dotti degli algerini, ci erano cascati e avevano votato quel partito che si chiama la Nahda, cioè la Rinascita, con quei volantini blu che avevo provato a leggere negli snack-bar del quartiere Saint-Charles. Ma nessuno fece il nome del partito e Tarik parlava genericamente dei “barbuti”. “Gli islamisti?”, gli chiesi io. Lui si difese e disse che non sono buoni musulmani, quelli. “Il musulmano al limite non fa politica, cerca di fare tutto il bene possibile e di non fare il male e non si occupa di politica, se vogliamo. Quella è gente che si serve della religione per fare i propri sporchi interessi. Non sono islamisti”. Io mi giustificai, in silenzio, raccontandomi la favola che per me “islamista” non significa musulmano, ma un certo tipo di discorso interno all'Islam che reinveste la religione in politica. Ma forse dovremmo smetterla di tirare sempre in ballo Maometto e provare a capirci qualcosa.
Mehdi li chiamava “estremisti” e disse che avevano vinto le elezioni nel sud del paese, dove la gente è ignorante e affamata. Il ricatto clientelare è la campagna elettorale più efficace. Io pensai alla Democrazia Cristiana, ma non dissi niente: anche spiegare gli eventi attuali di un paese tramite la propria storia nazionale è saccente, presuntuoso e colonialista. Tarik pronunciò una frase in arabo di cui capii soltanto l'ultima parola: “bled”, che significa “paese”, anche in francese.
Intanto il traffico ci teneva fermi davanti a un semaforo che diventava verde raramente e per pochi secondi. Chiesi a Mehdi se era di Tunisi e mi rispose di sì. Dovetti dirmi che quel ragazzo universitario, con gli occhiali e un corso di studi al politecnico da seguire, aveva fatto la storia del suo paese e che la storia del suo paese l'aveva tradito. Mehdi mi sembrava disgustato. Chiese a Tarik se anche in Algeria qualcosa si stava muovendo, ma un paese che ha vissuto un guerra civile decennale, finita qualche anno fa, sente ancora l'odore di sangue nelle narici e la paura di perdere un fratello, un figlio o la vita. E un popolo che ha paura non fa rivoluzioni.

A Marsiglia c'è sempre traffico e a me e Tarik piace parlare, anche quando non si ha nulla da dire. Parliamo spesso di politica, o di qualcosa che ci si avvicina, e generalmente ci raccontiamo come tale presidente o tale legge ci sta fregando e che se i politici fossero un po' meno stronzi, il mondo sarebbe un posto migliore.
Ogni volta che ci imbottigliamo in una coda di automobili io penso al mio salario ad ore e immagino una colonna di monetine d'oro che cresce, come in un fumetto o in un cartone animato. Tarik intanto mi spiega che all'alba del decennio nero, i generali facevano e disfacevano milizie armate con il compito di rubare, razziare, vandalizzare e ammazzare. Chiama questo esercito informale “les faux barbus”, “i falsi barbuti”, che dovevano rovinare la reputazione dei veri barbuti, quelli del Fronte Islamico della Salvezza, a cui il governo non voleva lasciare i poteri, nonostante lo schiacciante risultato elettorale. Un strategia della tensione che era stata descritta da un generale in esilio in Germania, che ha abbandonato i gradi e usato le parole al posto delle armi in un libro di cui ho dimenticato il titolo.
Io penso a Cossiga e a quell'intervista che avevo letto qualche anno fa in facoltà, alla Sapienza, prima che lui morisse. Raccontava impunemente come avesse provocato la morte di quella ragazza di cui non ricordo il nome, all'alba degli anni di piombo, su un ponte sul Tevere. Lo racconto a Tarik, che si scandalizza. Ci ripetiamo che “l'homme est mauvais”, più volte ce lo diciamo e finiamo anche per riderci sopra, che “l'homme est mauvais” e non possiamo farci niente oltre al nostro bene quotidiano.

Mentre Tarik sta cercando di mollare il suo lavoro di autista per farsi assumere da un'impresa francese che smonta l'amianto in una zona industriale del Ciad – lavori tre mesi, poi torni per un mese, poi riparti e così via, ben pagato –, dei cittadini libici hanno fatto fuori un ambasciatore americano a Benghazi. A scatenare la violenza, in Libia e anche altrove, pare sia stato un film statunitense intitolato, questo me lo ricordo, “The Innoncence of Muslims”.
Alla favola di un Islam che si ribella all'Occidente in seguito alla diffusione del video ci credo poco. Quando Tarik mi chiede che ne penso, gli racconto che la sera prima ho guardato un pezzo del film su Telesur, la televisione del dittatore Chavez, che mi tiene aggiornato anche su qualche lotta operaia italiana. Gli dico che il film è un'americanata, con degli uomini in djellaba che entrano in appartamenti e distruggono tutto. Gli riferisco anche che il film è stato finanziato da un centinaio di ebrei. Tanto per fargli capire da che parte sto, dico che non arrivo a dire che quei libici hanno fatto bene, ma che con un film del genere mi fanno davvero venir voglia di urlare che hanno fatto bene ad ammazzarlo, l'ambasciatore, e che ne ammazzassero anche qualcun altro, santo cielo. Tarik mi dice che nel Corano c'è già scritto tutto e che dopo la vita c'è la morte, e dopo la morte tutto si capovolge: chi ha fatto il male lo riceverà, e viceversa. Non so perché non penso a Gesù, ma avrei potuto. Penso invece che gli insegnamenti delle differenti religioni sono spesso molto simili e generalmente positivi.
Per non deprimerci, smettiamo di parlare di politica, o di qualcosa che ci si avvicina, e cominciamo a parlare di cibo. A quanto pare in Algeria tutto è bio e la famiglia di Tarik coltiva il tartufo, così tanto che quando lui va a trovare i parenti se ne torna a Marsiglia con delle cassette talmente piene che finisce per buttarne. Tornando a casa mi chiedo qual è questo tartufo del deserto né nero, né bianco, ma marrone, un po' bastardo, che nel sud dell'Algeria si coltiva a palate e che il mio collega vuole offrirmi al prossimo viaggio di ritorno.

domenica 23 settembre 2012

L'ultima festa dell'Unità (parte seconda)

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Leggi la prima parte qui.

Dei minuti, delle ore prima che Amin arrivasse, Fred finiva il piatto di spezzatino. Per esaltare il sapore della carne sorseggiava il vino, lo stesso che era servito qualche minuto prima per augurare la salute a Gina e che scorreva da anni nelle vene del marito. In quel momento di contemplazione gastronomica una folata di vento portò alle sue orecchie una nuova scampanata parrocchiale e al suo naso l'acre odore del letame.
Dei minuti, delle ore prima che Amin arrivasse, il grande ospite della serata si avvicinava il più possibile al centro della piazza, oltre il limite imposto alle altre automobili. Al segretario regionale del partito si avvicinò una giovane donna, che era stata presentata a Fred dal suo amico Amin qualche settimana o qualche mese prima e che era al momento una delle più brillanti e innovative, girava voce, personalità del partito. A Fred pareva che la giovane donna vestisse in maniera troppo elegante per non diffidarne. Si strinsero virilmente la mano.
Il segretario regionale del partito salutò cortesemente il vecchio professore, il marito di Gina e qualcun altro, che venivano ancora rispettati in nome delle parole sensate che tanti anni prima, qualche decennio, avevano speso per le povere genti di quell'angolo di mondo proletario, soprattutto contadini, pur non ottenendo alcun successo.
Fred non poté impedirsi di notare che nessuno osò offrire il buon spezzatino, il più buon spezzatino di tutte le feste dell'Unità sul territorio nazionale, al nuovo ospite, il più importante sul territorio regionale. Guardando il vassoio di frutta che gli veniva portato, Fred si domandò come avesse fatto l'uomo a diventare segretario e consigliere regionale con quella sua intolleranza alla carne, alle proteine della carne e ai suoi derivati, in un angolo di mondo come quello, dove i voti si misuravano con i chili di carne offerta agli elettori in mesi, in settimane pre-elettorali. Come un uomo che si nutriva solo di frutta e verdura avesse fatto a diventare il politico che era, seppur perdente alle urne, in un angolo di nazione dove maiali, agnelli e vitelli venivano sacrificati per ringraziare iddio e i suoi rappresentanti democratici del benessere acquisito negli ultimi anni, negli ultimi decenni, dopo quella guerra di cui si era tanto sentito parlare e che, a un certo punto, si era anche vista passare, per qualche giorno e con tanta paura.
Il segretario salì sul palco, interrompendo le stonate danze popolari del gruppo tradizionale apprezzato tutti gli anni, da dieci anni, dagli organizzatori della festa, e si apprestava a proferire qualche parola essenziale, molto essenziale perché tutti capissero, sul futuro della povera ma feconda terra sulla quale vivevano, al giorno d'oggi non troppo radioso.
Fu soprattutto a questo punto che Fred sentì la mancanza di Amin, quando le circostanze mostravano visibilmente che non c'era nessun'altra possibilità, durante il quarto d'ora che seguiva, che ascoltare il discorso noioso e vuoto del segretario, fatto di parole semplici, ma con qualche filosofema usato a sproposito per ricordare che la sua automobile era una Lancia Thesis che poteva arrivare, grazie a delle icone adesive ben in mostra sul parabrezza, al di là dei limiti preposti per le altre banali auto.
Fu a questo punto, soprattutto alla parola palingenesi usata dal segretario per dire qualcosa che Fred non capì, a un momento in cui il marito di Gina si era distratto, mentre sua moglie aggiungeva un po' di sale al suo spezzatino, e il professore mentiva a se stesso sulla compiutezza del discorso del suo giovane amico ed eletto, fu a questo punto che un senso di vomito colse Fred. Come un'intolleranza, un'intolleranza a quello spezzatino, ormai troppo salato, a quel vino e a quel letame, a quel letamaio in cui era seduto.
Fu a questo punto che Fred decise di interrompere la sua attesa e di andare via, prima che il suo amico Amin arrivasse, prima che non gettasse un voto, un altro voto, prima che il suo racconto non fosse omologato al loro, a quello della gente del partito. Fu a questo punto che Fred decise di non sentirsi rappresentato, di non voler essere rappresentato. Compagno di viaggio di nessuno, Fred ripartì, con i due sacchi a pelo nel cofano, per colpa tutto sommato di una parola usata male, di un discorso senza senso, di un comizio che l'aveva fatto arrabbiare, indignare.

domenica 16 settembre 2012

L'ultima festa dell'Unità (parte prima)

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Fred faceva le cose con calma e puntualità. Una notevole differenza rispetto al suo amico Amin, che amava fare le cose con troppa, troppa calma. Arrivare puntuali è maleducazione, si giustificava lui. Ciononostante Fred continuava a presentarsi in orario agli appuntamenti con il suo amico. A dire il vero, non riusciva mai a ricordare, o forse a capire quale fosse l'orario dell'appuntamento; in serata, ci si diceva, in serata, che non erano le nove, che non erano le otto.
Fred si muoveva con calma e puntualità, anche perché non voleva arrivare dopo che il cibo fosse finito. Partiva con una certa previdenza e caricava il cofano di sacchi a pelo, due in genere, sapendo che l'alcol sarebbe finito e che non avrebbe guidato ubriaco. Fred amava le attese, perché gli permettevano di osservare il mondo, diceva, e conoscere gente nuova, unirsi al loro tavolo, fare due chiacchiere. Fred è un chiacchierone buongustaio e raffinato, dalla bocca piena di parole e di cibo, alternativamente.
Da quando viveva fuori non ne aveva più mangiati, di spezzatini di fegato. Esaminava la consistenza dei piselli verde scuro, dalla scorza integra e la polpa tenera, quella della cipolla, molle sulla lingua e dal gusto delicato. Mai riuscito a cuocerla così, sarà una cosa da donne.
Di fegato, nella zuppa, ce n'era poco. Si dice che anche dalle sue parti i palati siano diventati ormai più delicati e tollerino poco i sapori forti e pastosi delle interiora. A questa ragione Fred imputava la rarità del fegato nella brodaglia, scartato a favore del più accettato trancio di vitello. Ma sulla qualità del piatto nessuno manifestava dissensi. Anzi, Fred poteva ascoltare, seduto nell'atteggiamento di chi è arrivato troppo presto e cerca compagnia, il segretario, faccia conosciuta, vantarsi dell'ottima gastronomia che il partito era pur sempre in grado di offrire, anche in tempi così duri, ai suoi iscritti, simpatizzanti e votanti (dietro modico corrispettivo).
Come lo fa Gina, lo spezzatino, non ce l'ha mai fatto nessun'altra. E tutti si bevevano un bicchiere di vino rosso, riempito dal marito di Gina, alla salute della santa donna, che aveva sopportato tre parti, la disgraziata morte del primogenito, le invidie della cognata e che sopportava tuttora suo marito, i suoi bicchieri e l'odore della friggitrice che gestivano affianco i più giovani iscritti, esagerando con il sale per assetare i comuni elettori. Non aspettava altro, Fred, che la Gina si manifestasse al terzo brindisi in suo onore con un bicchiere riempito a metà, per carità, non di più, per farle i complimenti, che buono, che buono lo spezzatino.
Mangiava lentamente, Fred. Bagnava il pane nel sugo, poi imboccava una forchettata, masticava. Almeno fino all'arrivo di Amin, aveva bisogno di un buon motivo per starsene seduto lì, a quel tavolo, e stare a sentire i discorsi delle principali personalità della struttura provinciale del partito.
Mentre addentava il vitello placidamente, un doncamillo ritenne opportuno di lanciare all'aria una bella scampanata per segnalare la messa delle dieci di sera per la Madonna del Carmine. I rintocchi si accavallarono ai tamburi suonati dal gruppo di musica popolare apprezzato ogni anno da dieci anni dai nipoti insipidi e sciupati dei pepponi d'antan; si confusero con le scampanellate delle vacche della non lontana stalla, da cui il vento portava a tratti anche i muggiti e zaffate di letame; e offrirono al segretario il pretesto per rimarcare come una volta, quando si era ancora un po' cristiani a questo mondo, le feste dell'Unità non si sovrapponessero con quella del Carmine. Una volta la festa dell'Unità la si faceva ad agosto, quando c'erano pure i tedeschi che tornavano e facevano qualche cliente in più.
Niente più era come prima, neanche il sapore dei vitelli, ciò che non poteva comunque nuocere alla riuscita dello spezzatino di Gina. Le carni erano diventate più grasse, le pance dei politici pure e ai sindacalisti spettavano gli avanzi. Il Presidente, quanto a lui, era la rovina del paese, che l'aveva spezzato in due e se non ce ne si liberava, non si sa dove andare a parare.
A Fred pareva che non si parlasse che di lui, del Presidente, dell'Ipernominato e Cavallerizzato Presidente, più volte imputato nel corso della serata per i mali del paese e per quelli dei suoi detrattori, si difenderebbe il Presidente. Il Cavallerizzo e Irrispettabile Presidente era l'Onnipresente argomento e soggetto della serata dell'Unità, una delle ultime nella storia di questo paese, più presente delle campane, del letame e perfino dello spezzatino di Gina.
Lo Stranominato e Straviziato Presidente, Cavaliere delle sue Puttane, era la causa del disfacimento morale del paese, che nonostante tutto, nonostante gli altri Presidenti, aveva sempre mantenuto, nelle Aule, una certa decenza e moralità.
Il vecchio professore, che Fred conosceva dai tempi del liceo, portava gli stessi baffi di quando redasse lo statuto della sezione cittadina del PCI, qualche anno, qualche decennio prima. Imbiancato con l'età, il pelame sovralabiale conservava bene i segni colorati della salsa dello spezzatino, liberandosene goccia per goccia quando la testa del vecchio professore in pensione decideva di parlare e predicare contro la penosa condotta del Presidente.

Leggi la seconda parte qui.

domenica 4 marzo 2012

Le cartoline del cantautore in vendita a 100 lire l'una

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...buongiorno! Eccoci qui in via del Campo nella città vecchia del capoluogo ligure per l'inaugurazione della nuovissima, splendente direi! casa-museo dedicata ai più grandi cantautori della “scuola genovese”. Il museo si chiama, come tu annunciavi da studio cara Isabella, via del Campo 29 rosso, che è una semplice ripresa del numero civico del negozio (come sapete qui a Genova i civici si dividono in neri, per le abitazioni, e rossi, per le attività commerciali); nome che è però anche una citazione, che tutti riconosceranno, della nota canzone di Fabrizio De André intitolata, appunto, Via del campo. Come potete vedere grazie al nostro cameraman Gigi, la piazzetta davanti il museo-negozio è gremita di ammiratori, visitatori ma anche semplici curiosi che affollano la strada per rendere omaggio ai cantautori e prima di tutto a De André, il cui ricordo è ancora vivo nel cuore di tanti italiani. Ma ecco Berto Lubkoff, il nuovo presidente della Fondazione Via del Campo, vediamo se riusciamo ad averlo ai nostri microfoni. Dottor Lubkoff, buongiorno! Isabella, ai microfoni di RunTg24 il Dottor Lubkoff.

Buongiorno, buongiorno a tutti i telespettatori.

Dottor Lubkoff, finalmente il negozio di Gianni Tassio riapre!

Sì, è stata dura. Noi, insieme al comune, abbiamo promosso varie aste e finalmente siamo riusciti a dare in gestione il negozio ad una società privata che si è incaricata, insieme a noi, di ridare vita a questo luogo di incontro, di musica e soprattutto di memoria del nostro caro De André.

Ecco, possiamo spiegare al nostro pubblico cosa si può trovare all'interno della casa?

Beh, io citerei prima di tutto la chitarra, storica!, di Fabrizio, la Esteve, che lo ha accompagnato nei suoi concerti e che è sempre con lui nelle foto che lo ritraggono. Poi c'è uno schermo piatto che fornisce varie informazioni, generali, storiche, sulla scuola genovese e su questo museo, ma la grande novità mi sembra che sia il laboratorio multimediale in cui i visitatori potranno divertirsi a rispondere alle domande di un quiz sui cantautori genovesi. I vincitori si aggiudicheranno una spilla del negozio-museo in regalo.

Non dobbiamo dimenticare infatti che la casa-museo continua ad essere un negozio, come sarebbe piaciuto al vecchio proprietario, Gianni Tassio.

Sì, ma le chitarre hanno lasciato il posto ad un merchandising più moderno, più innovativo: spille, t-shirt, sottobicchieri, cappellini, delle carinissime tazzine da caffè e ovviamente anche i dischi di De André e qualche libro sulla sua vita.

Ringraziamo il Dottor Lubkoff per averci concesso qualche minuto del suo tempo e, se ho ancora tempo, prima di entrare all'interno del museo, vorrei intervistare uno dei visitatori qui in attesa in piazza del Campo...
Buongiorno, sono Virginia da RunTg24. Anche lei qui per l'apertura della casa-museo, cosa le sembra?

Ehm, sì, mi sembra una cosa interessante...

Lei è di Genova?

No, di Pavia.

Ed è venuto qui apposta?!

Veramente no, è che sin da Pavia si pensa al mare, e allora...

Pensa che riuscirà ad entrare nel negozio con tutta questa gente?

Non credo, c'è tanta gente infatti e non lasciano entrare, che è l'inaugurazione... magari un altro giorno!

Ma ora è arrivato il momento di entrare nella casa, seguici Gigi! Abbiamo l'emozione di essere tra i primi ad attraversare il corridoio bianco con questi schermi piatti ai lati che ritraggono i cantautori genovesi nei loro momenti migliori. Ma eccoci arrivati nel cuore del negozio, dove incontriamo il giovane architetto di 45 anni Bernardo Branzanick, che ha ripensato questo luogo come lo vediamo oggi. Architetto, cosa ha significato per lei riprogettare interamente questo posto?

Beh, il compito non è stato semplice, mi si chiedeva di pensare un museo che fosse anche un negozio, ed è per questo che ho pensato a questa configurazione concentrica, centripeta direi, con lo spazio museale ai lati e quello vendita al centro. Il visitatore deve avere l'impressione di trovarsi in una posizione rivelatrice, ma anche leggera, trasparente direi, non museale. Per questo ho scelto dei colori minimalisti come il bianco, il grigio e il rosso.

E poi c'è la chitarra di De André...

Sì, che doveva essere l'elemento centrale del museo. Per questo ho scelto di collocarla al centro, ma in alto, in un cubo di leggerissimo plexiglass, in modo che la si possa visionare da tutti gli angoli.

Senta, ma ci potrebbe svelare un segreto del suo lavoro, per gli spettatori di RunTg24, su come si fa a rendere un vecchio negozio di chitarre un museo così chiaro e luminoso?

Beh, diciamo che il compito principale di ogni architetto è di pensare un luogo nello spazio circostante. Per questo ho voluto che questo negozio fosse una prosecuzione in un certo senso del quartiere. Lo spazio centrale, dedicato al merchandising, è circondato da piccoli corridoi che riproducono i caruggi genovesi. Ma questo luogo deve essere anche una rottura rispetto al quartiere, dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi: per questo abbiamo voluto un'atmosfera così luminosa, così pulita e così bianca.

Grazie mille architetto. Isabella, io salirei verso il laboratorio multimediale per sperimentare direttamente il quiz sui cantautori genovesi. Grandi e piccini potranno infatti divertirsi a rispondere alle domande del quiz per mettere alla prova la propria conoscenza della scuola genovese. Eccoci qui davanti allo schermo, premiamo Gioca sul touchscreen e il nostro game è iniziato! Prima domanda:
In quale regione italiana è stato rapito il cantautore genovese Fabrizio De André con sua moglie Dori Ghezzi la sera del 27 agosto 1979?
a) Calabria
b) Liguria
c) Sardegna
d) Molise
Rispondiamo la c, la accendiamo ed è la risposta esatta Isabella! Per festeggiare con noi c'è il consigliere comunale Osvaldo Rotinnà, che è stato tra i più assidui sostenitori del progetto. On. Rotinnà, cosa significa oggi aprire la casa-museo Via del Campo 29 rosso per la città di Genova?

Per noi la riapertura di questo negozio è un gesto molto significativo, perché è la testimonianza di una città che c'è, che è presente e che conserva la sua identità pur aprendosi alla novità, alla modernità.

Il comune ha voluto aprire questo spazio a più riprese e finalmente ci è riuscito. Quali risultati si aspetta ora?

Ma, guardi, la vittoria, oggi, è prima di tutto dei genovesi, che si identificano fortemente in Fabrizio De André e nei suoi artisti più in generale. E poi è una vittoria in particolare di questo quartiere, che è oggetto oggi di un'importante opera di riqualificazione che dovrà rilanciare il centro storico, i suoi caruggi e le sue attività commerciali.

E via del Campo continuerà ad essere quella cantata da De André?

Io credo che sia nel corso naturale della vita che le cose cambino, quindi anche via del Campo mi sembra cambiata rispetto ai tempi di De André. Oggi la vediamo invasa dalle varie cineserie, immigrati, taxiphone... Io credo che oggi abbiamo un compito molto importante, ed è quello di permettere ai genovesi e a chi voglia visitare la nostra città di respirare la stessa atmosfera cantata da De André, ecco, questo sì! Per riprendere De André, dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior. Noi dal letame faremo nascere i fiori e, se ci riusciamo, anche qualche diamante!