Avevamo girato per un'ora e mezza,
prima di raggiungere l'indirizzo della greca albanese. Avevamo fatto
nove o dieci volte il giro intorno agli stessi rondpoint e alle
stesse rotonde, prima di capire che lo Chemin du Vallon des Pins
cominciava tra un albero di fichi e un muretto di calce e pietre,
intersecandosi con un altro piccolo Chemin, da imboccare nella giusta
direzione a livello di una fourche, raggiungibile attraverso la
strada a destra della seconda rotonda. Seguendo alla lettera le
istruzioni della proprietaria di casa, saremmo dovuti arrivare a
destinazione senza problemi.
Accompagnare la greca albanese in
quell'angolo di città che non pareva più città né Marsiglia, tra
l'Hôpital Nord e il villaggio di Saint-Antoine, un paesino
inghiottito tra l'autostrada e i casermoni popolari controllati
ventiquattro ore su ventiquattro dalle sentinelle della malavita, ci
era costato fatica e improperi contro chi aveva preso quell'indirizzo
e l'aveva infilato nei nostri arrivi giornalieri. Ma io,
che ero pagato all'ora, gioivo per ogni disguido.
Depositata la greca col passaporto
albanese, Tarik era tornato di buon umore e si rivolgeva all'altro studente che scarrozzavamo a bordo della navette, Mehdi. Gli chiese sorridente come fosse attualmente la situazione in
Tunisia.
“Abbiamo fatto la rivoluzione e ne
hanno approfittato”. Come sempre, le rivoluzioni non le vincono mai
quelli che le fanno. Ma non dissi nulla, perché la massime sono per
i saccenti che vorrebbero poter insegnare la Storia.
Tarik si chiese ad alta voce com'era
stato possibile, come mai anche i tunisini, loro che sono più
istruiti e dotti degli algerini, ci erano cascati e avevano votato
quel partito che si chiama la Nahda, cioè la Rinascita, con quei
volantini blu che avevo provato a leggere negli snack-bar del
quartiere Saint-Charles. Ma nessuno fece il nome del partito e Tarik
parlava genericamente dei “barbuti”. “Gli islamisti?”, gli
chiesi io. Lui si difese e disse che non sono buoni musulmani,
quelli. “Il musulmano al limite non fa politica, cerca di fare
tutto il bene possibile e di non fare il male e non si occupa di
politica, se vogliamo. Quella è gente che si serve della religione
per fare i propri sporchi interessi. Non sono islamisti”. Io mi
giustificai, in silenzio, raccontandomi la favola che per me
“islamista” non significa musulmano, ma un certo tipo di discorso
interno all'Islam che reinveste la religione in politica. Ma forse
dovremmo smetterla di tirare sempre in ballo Maometto e provare a
capirci qualcosa.
Mehdi li chiamava “estremisti” e
disse che avevano vinto le elezioni nel sud del paese, dove la gente
è ignorante e affamata. Il ricatto clientelare è la campagna
elettorale più efficace. Io pensai alla Democrazia Cristiana, ma non
dissi niente: anche spiegare gli eventi attuali di un paese tramite
la propria storia nazionale è saccente, presuntuoso e colonialista.
Tarik pronunciò una frase in arabo di cui capii soltanto l'ultima
parola: “bled”, che significa “paese”, anche in francese.
Intanto il traffico ci teneva fermi
davanti a un semaforo che diventava verde raramente e per pochi
secondi. Chiesi a Mehdi se era di Tunisi e mi rispose di sì. Dovetti
dirmi che quel ragazzo universitario, con gli occhiali e un corso di
studi al politecnico da seguire, aveva fatto la storia del suo paese
e che la storia del suo paese l'aveva tradito. Mehdi mi sembrava
disgustato. Chiese a Tarik se anche in Algeria qualcosa si stava
muovendo, ma un paese che ha vissuto un guerra civile decennale,
finita qualche anno fa, sente ancora l'odore di sangue nelle narici e
la paura di perdere un fratello, un figlio o la vita. E un popolo che
ha paura non fa rivoluzioni.
A Marsiglia c'è sempre traffico e a me
e Tarik piace parlare, anche quando non si ha nulla da dire. Parliamo
spesso di politica, o di qualcosa che ci si avvicina, e generalmente
ci raccontiamo come tale presidente o tale legge ci sta fregando e
che se i politici fossero un po' meno stronzi, il mondo sarebbe un
posto migliore.
Ogni volta che ci imbottigliamo in una
coda di automobili io penso al mio salario ad ore e immagino una
colonna di monetine d'oro che cresce, come in un fumetto o in un
cartone animato. Tarik intanto mi spiega che all'alba del decennio
nero, i generali facevano e disfacevano milizie armate con il compito
di rubare, razziare, vandalizzare e ammazzare. Chiama questo esercito
informale “les faux barbus”, “i falsi barbuti”, che dovevano
rovinare la reputazione dei veri barbuti, quelli del Fronte Islamico
della Salvezza, a cui il governo non voleva lasciare i poteri,
nonostante lo schiacciante risultato elettorale. Un strategia della
tensione che era stata descritta da un generale in esilio in
Germania, che ha abbandonato i gradi e usato le parole al posto delle
armi in un libro di cui ho dimenticato il titolo.
Io penso a Cossiga e a quell'intervista
che avevo letto qualche anno fa in facoltà, alla Sapienza, prima che
lui morisse. Raccontava impunemente come avesse provocato la morte di
quella ragazza di cui non ricordo il nome, all'alba degli anni di
piombo, su un ponte sul Tevere. Lo racconto a Tarik, che si
scandalizza. Ci ripetiamo che “l'homme est mauvais”, più volte
ce lo diciamo e finiamo anche per riderci sopra, che “l'homme est
mauvais” e non possiamo farci niente oltre al nostro bene
quotidiano.
Mentre Tarik sta cercando di mollare il
suo lavoro di autista per farsi assumere da un'impresa francese che
smonta l'amianto in una zona industriale del Ciad – lavori tre
mesi, poi torni per un mese, poi riparti e così via, ben pagato –,
dei cittadini libici hanno fatto fuori un ambasciatore americano a
Benghazi. A scatenare la violenza, in Libia e anche altrove, pare sia
stato un film statunitense intitolato, questo me lo ricordo, “The
Innoncence of Muslims”.
Alla favola di un Islam che si ribella
all'Occidente in seguito alla diffusione del video ci credo poco.
Quando Tarik mi chiede che ne penso, gli racconto che la sera prima
ho guardato un pezzo del film su Telesur, la televisione del
dittatore Chavez, che mi tiene aggiornato anche su qualche lotta
operaia italiana. Gli dico che il film è un'americanata, con degli
uomini in djellaba che entrano in appartamenti e distruggono tutto.
Gli riferisco anche che il film è stato finanziato da un centinaio
di ebrei. Tanto per fargli capire da che parte sto, dico che non
arrivo a dire che quei libici hanno fatto bene, ma che con un film
del genere mi fanno davvero venir voglia di urlare che hanno fatto
bene ad ammazzarlo, l'ambasciatore, e che ne ammazzassero anche
qualcun altro, santo cielo. Tarik mi dice che nel Corano c'è già
scritto tutto e che dopo la vita c'è la morte, e dopo la morte tutto
si capovolge: chi ha fatto il male lo riceverà, e viceversa. Non so
perché non penso a Gesù, ma avrei potuto. Penso invece che gli
insegnamenti delle differenti religioni sono spesso molto simili e
generalmente positivi.
Per non deprimerci, smettiamo di
parlare di politica, o di qualcosa che ci si avvicina, e cominciamo a
parlare di cibo. A quanto pare in Algeria tutto è bio e la famiglia
di Tarik coltiva il tartufo, così tanto che quando lui va a trovare
i parenti se ne torna a Marsiglia con delle cassette talmente piene
che finisce per buttarne. Tornando a casa mi chiedo qual è questo
tartufo del deserto né nero, né bianco, ma marrone, un po'
bastardo, che nel sud dell'Algeria si coltiva a palate e che il mio
collega vuole offrirmi al prossimo viaggio di ritorno.
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