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Come descrivere la
sensazione che prova il giovane espatriato italiano quando pensa al
suo paese d'origine?
Rifiuto?
Disprezzo?
O rancore?
Nel mio caso, scelgo
l'ultima opzione e, in questa, ci metto anche le prime due.
Questa rabbia, in realtà,
testimonia un attaccamento non minore al proprio paese di origine che
la nostalgia. Ma, tant'è, ogni volta che sento parlare italico o che
intravedo il rischio di dover relazionarmi con qualsiasi essere
vivente o cosa facente mostra di peninsularità, rifuggo.
Al punto che convivo in
coppia con un'italiana, con la quale ho d'altra parte interdetto
l'uso del francese per le conversazioni quotidiane. Ma, a parte
questo, zero Italia.
Dopo tanti anni di esodo,
sono tornato a far parte del popolo dei telespettatori. Ma non è
stata colpa mia. Le contingenze, il mercato... Fatto sta che nel
contratto ADSL o fibra ottica che abbiamo stipulato è inclusa anche
una scatola che si chiama Free Revolution, che di rivoluzionario, tra
tante altre cose, ha il fatto di permettermi di guardare circa 500
canali televisivi del mondo intero. C'è France1, Canal+, CNN,
Berbère TV, AlJazeera, Telesur e compagnia bella. E quando, facendo
zapping, arrivo intorno al cinquecentoquarantesimo canale, la
tentazione è forte di fare ancora una ventina di passi in avanti e
raggiungere le tre reti RAI e un canale Mediaset, che deve essere
nato quando già mi ero emancipato dal giogo televisivo, cioè in
epoca digitale.
Senza opporre troppa
resistenza, faccio capolino tra i canali e vado a vedere se Pippo
Baudo è ancora lì, insieme a Chi l'ha visto e la Carrà, come chi
prima di andare a letto fa un giro in casa per vedere se i bambini
hanno preparato lo zaino, il gas è spento e tutto il resto è in
ordine. Poi il tempo di incazzarsi, di dirsi che la televisione
italiana è uno schifo e cambiare canale.
Repubblica, vi giuro, ho
smesso di leggerlo quando ero ancora in Italia. Non vado neanche più
sulla home.
Per andare in bagno,
nella biblioteca dell'università, si è obbligati a passare affianco
all'angolo giornali. Oltre alla stampa francese c'è anche quella
estera e l'Italia è rappresentata dalla Repubblica, che i miei occhi
nascondono bene tra El Paìs e Le Canard Enchaîné, e l'Espresso, che
invece è difficilmente eludibile.
Terzo in alto da
sinistra, un colpo d'occhio e la ricerca del sommario, tra pubblicità
invisibili e editoriali illeggibili, comincia. Ad attirare la mia
attenzione è stata la copertina di venerdì scorso: una gran bella
foto nitida, con due ragazzi e due ragazze in un ambiente urbano, in
piedi o appoggiati su un blocco di cemento pieno di manifesti
incollati; sullo sfondo, un palazzo in vetro che, se mi fossi deciso
a comprare quel biglietto per Berlino qualche anno fa, riconoscerei
senz'altro; e poi, soprattutto, il titolo: I NUOVI EMIGRANTI.
Cazzo, sono io.
Finalmente un giornale,
un settimanale di centrosinistra ha deciso di affrontare il tema: la
nuova emigrazione italiana. Mi avvicino curioso all'oggetto. Il
sottotitolo è andabile, nonostante qualche ritocco che gli avrei
fatto qui e lì:
Giovani, laureati e disoccupati, hanno deciso di compiere il grande passo: lasciare l'Italia in cerca di un lavoro. Come cent'anni fa. L'Espresso racconta le loro storie. Di disperazione e di speranza.
Mi preparo alla lettura
del pezzo senza neanche sentirmi in colpa per aver posticipato così
la ricerca dell'Estetica di Hegel. Ne va delle sorti patrie.
Scovo allora il sommario
a pagina 25 (ormai non mi frega più: corro diretto oltre tutta
quella monnezza) e controllo quante pagine hanno dedicato
all'argomento. Sei. Pochine. Per di più circa i due terzi dello
spazio è occupato da: una foto gigantesca di una fricchettona con un
orecchino largo quanto un hula hoop che si chiama Verena e che fa la
barista a Berlino; uno strillo che racconta in maniera succinta la
storia di Verena; la foto di un tipo con la t-shirt della carhartt
che trascina un trolley affianco ad un Malpensa Express lucidato a
nuovo; trafiletti; didascalie e altre foto accessorie. Insomma, a
prima vista non è di certo un dossier ben nutrito. Non per lo meno
da meritare la prima pagina.
La tesi del giornalista è
che c'è una nuova generazione di italiani, “i figli nati negli
anni Ottanta” (decennio ricordato – perché no? – “per la
Coppa del mondo, la vittoria sul terrorismo, la fine del terrorismo”;
e Craxi? e Maradona e il Napoli che vincono lo scudetto? e Chernobil,
il referendum per il nucleare, quello sull'aborto? il Concordato
nell'84, la scalata di Berlusconi, Berlinguer muore!), una nuova
generazione di italiani, comunque, che emigra per cercare lavoro. La
cosa interessante è che non si tratterebbe della ben nota “fuga
dei cervelli”, di tutti quei ricercatori che, non trovando spazio
in Italia, fanno fortuna all'estero. No. Si tratta di comuni laureati
e diplomati “che all'estero vanno a fare i muratori, i baristi, i
lavapiatti”, insomma una cifra di lavori de merda. Pur di non
starsene in Italia...
Il giornalista insiste,
volendo far percepire al lettore italiano la gravità della cosa:
Laureati e diplomati che nella spietata gerarchia dei lavori di fortuna spesso vengono all'ultimo posto dopo turchi, arabi e cinesi.
Che schifo. Peggio delle
bestie. Come non scandalizzarsi del fatto che i laureati italiani
seguono, nel carro degli sfigati, gente che si trova ai margini del
mercato del lavoro essendo per definizione turchi, cioè mendicanti,
arabi, cioè venditori di fumo, cinesi, cioè
venti-in-una-stanza-di-nove-metli-quadlati-a-cucile-gonnelline-nella-zona-industliale-di-Plato.
Non è orribile?: noi peggio di loro, che ce li eravamo presi proprio
per dirci che c'era di peggio, c'è sempre peggio e il peggio è un
po' negro o un po' a mandorla.
Poche righe dopo, il
giornalista, benché non sia cosciente della scaltrezza con cui la
xenofobia gli ha fatto scrivere quella frase in fin di paragrafo,
sente comunque l'esigenza di far capire bene da che parte sta e
lancia un monito al lettore:
Immaginate se adesso in Germania e in Svizzera, le principali mete dell'esodo, qualche Umberto Bossi locale giudicasse i nostri emigranti un pericolo per le tradizioni, un'invasione de respingere.
Ecco, immaginatevelo un
po'. Stronzi.
E siccome, oramai, ci
siamo ridotti come loro, arabi, turchi, cinesi e negrame vario
destinato a lavori sottoqualificati per ragioni di razza, colore e
passaporto:
Ecco le storie. Raccolte con le stesse domande che soltanto nel 2009 L'Espresso aveva rivolto ai ragazzi africani che affollavano Agadez e la rotta del Sahara verso l'Europa. Ai coetanei che nel 2006 subivano le violenze dei caporali nei campi di pomodoro in Puglia. Ai sopravvissuti che nel 2005 si calpestavano nel centro di detenzione a Lampedusa. Il vento è girato.
Già,
perché il giornalista in questione è Fabrizio Gatti, l'autore di
Bilal. Il mio
viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi,
in cui racconta la sua esperienza di ripescato in mare, detenuto nei
centri di detenzione e non so che altro, visto che il libro non l'ho
letto. Insomma, una persona che sa cosa significa migrare.
Dopodiché,
Gatti ci ricorda che c'è di peggio: i nostri nonni. E un po' di sano
paternalismo. Loro sì che migravano per davvero, che andavano a
lavorare e a morire a Marcinelle. Mica come oggi, che “si progetta
l'uscita con un occhio a Facebook. Il passaparola corre tra i post
degli amici. […] Il viaggio non dura più nottate insonni in treno.
Ci sono le compagnie low cost. Poche decine di euro e due ore di
volo.” Ma, come negarlo, “dentro, nell'animo, lo strappo è
altrettanto forte”.
Segue
la storia di Marco, un ragazzo che vive a Berlino. Gli ha detto
piuttosto male e si è fatto inchiappettare (metaforicamente) come si
deve su un paio di posti di lavoro. E l'occasione non manca per
ricordare come sia i turchi che gli arabi: “lo sanno tutti che non
pagano”.
Da questo dossier (che non è un dossier, ma un banale articolo qualche colonna) trasuda quell'inconsapevole, e non per questo
innocente, xenofobia che si maschera di vicinanza e di comprensione
per l'immigrato, buono quanto (o perché) disperato. È una xenofobia
sottile.
Riuscire
a mettere sullo stesso piano l'emigrazione italiana odierna e
l'emigrazione africana è così banalmente scorretto e fuori luogo
che non si trova nessun'altra ragione per giustificarlo al di fuori
della convenienza giornalistica: ho fatto quei pezzi così fighi
qualche anno fa, non c'entrano un granché, ma così ci metto un po'
di disperazione in più e stai a vedere che se ci metti quel tocco di colore in più, piace.
Il
vento è girato. Ieri eravamo sopra, oggi sotto. È uno scandalo, lo
so. Meno male che ci sono Facebook e RyanAir che ci rendono la vita
più facile rispetto ai nostri nonni. E anche rispetto a quei
poveracci, quelli un po' negri un po' gialli.
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