Prima di tutto, è così che i problemi si pongono a Mayotte
[donna di colore] – all'età di cinque anni e alla terza pagina del
suo libro: “Lei tirava fuori il calamaio dal suo banco e glielo
scaraventava sulla testa, facendogli una doccia.” Era la maniera
tutta sua di trasformare i Bianchi in Neri. Ma si è resa conto ben
presto della vanità dei suoi sforzi; e poi ci sono Loulouze e sua
madre che le hanno detto che la vita, per una donna di colore, è
difficile. Allora, non potendo più annerire, non potendo più
negrificare il mondo, cercherà nel suo corpo e nel suo pensiero di
sbiancarlo.
Qualsiasi popolo colonizzato – cioè qualsiasi popolo in seno al
quale è sorto un complesso d'inferiorità, a causa della demolizione
dell'originalità culturale locale – si situa di fronte al
linguaggio della nazione civilizzatrice, cioè della cultura
metropolitana. Il colonizzato sarà tanto fuggito dal proprio pantano
quanto più si sarà appropriato dei valori culturali della
metropoli. Sarà tanto bianco quanto più avrà rigettato le sua
nerezza, il suo pantano.
Frantz Fanon, Peau noire, masques blancs.
Guardando Django Unchained di Quentin Tarantino un paio di
settimane fa al cinema, ho pensato a Fanon e alla sua maniera di descrivere la
dominazione subita dal negro colonizzato. Certo, Fanon è un intellettuale e
psichiatra e in Peau noire, masques blancs parla dei neri
delle Antille e del loro rapporto alla Métropole, la Francia.
Leggere Tarantino attraverso Fanon può essere in parte fuorviante.
Eppure, quando il Tedesco (ah, piccola nota: io ho una cattiva
memoria; a parte Django, i nomi degli altri personaggi li ho
dimenticati. Quindi siate comprensivi e accettate la semplificazione:
il Tedesco è il (finto) cacciatore di taglie, Di Caprio è il grande
proprietario terriero, il Servo è il servo di Di Caprio, etc.).
Quando verso l'inizio del film il Tedesco libera Django e gli
dà la possibilità di scegliere il suo abbigliamento, Django,
incredulo della possibilità di scelta che gli è stata data, si veste
come un colonizzatore schiavista francese di un secolo e mezzo prima:
velluto blu, bavero bianco. Di fronte a questa scena, Fanon mi è
saltato alla mente e non ho potuto fare a meno di interpretare Django
Unchained come un film sull'impossibilità di liberarsi da una
dominazione totale imposta ad un gruppo, in questo caso gli schiavi
neri.
Django è un gran bel film. Si spara e c'è violenza come in
un buon western. Tanti morti, tutti ammazzati da un eroe per il quale
simpatizziamo dall'inizio alla fine, quando trionfa. Per di più, la
violenza in Tarantino è neutralizzata (quasi) totalmente: è
splatter, non fa paura e la fotografia rende le immagini più vicine
alle pagine di un fumetto che alle scene di un film.
In un paio di momenti, però, la fotografia cambia e la violenza
inquieta realmente lo spettatore. Si tratta dei ricordi di Django che
ripensa alla sua fuga con Brumhilde, alla cattura, alle sevizie
subite. Quelle scene non sono più le pagine di un fumetto, ma delle
scene quasi documentaristiche, come a dire: certo cari spettatori,
noi qui ci stiamo raccontando una storia, una finzione, ci stiamo
divertendo, ma ricordatevi che queste cose succedevano/ono davvero.
Django non è un film storico. Tarantino ci aveva già
abituato a delle finzioni ispirate a degli eventi storici scottanti.
Ed è, a mio avviso, su questo statuto di finzione storica (nel senso
di sconvolgimento narrativo, fittizio della Storia) che bisogna
riflettere. Tarantino prende
degli eventi storici e li manipola, li stravolge, prende i vinti e
gli fa compiere una vendetta violenta, catartica e spettacolare. Come
piace a noi.
Invertire il corso della Storia attraverso la finzione è una maniera
di riflettere sulla Storia. Manipolarla non significa immaginare come
ci sarebbe piaciuto che andasse, ma rappresentare, cioè interpretare
le dinamiche storiche e mostrarle. Una finzione storica, nel caso di
Django Unchained, è un film che riflette sulla schiavitù dei
neri negli States e prova a dirne le dinamiche. Insomma, questa
finzione è un'astrazione, una sega mentale che, per una volta, non è
noiosissima e ci tiene incollati allo schermo per tre ore. Roba
paradisiaca.
Django non è un eroe negro. Se gli amici della negritudine avessero
visto questo film qualche decennio fa, forse l'avrebbero criticato alla
grande. E in molti l'hanno fatto oggi. Ciò che scandalizza è
proprio il fatto che Django non riscatta i negri. La sua vendetta è
tutta personale, egoista e individuale, come ha messo in evidenza un mio caro amico su un blog fighissimo. Django, anzi, decreta la morte di un altro
negro. Pare proprio che voglia distinguersi dagli altri neri al punto
che, prima di ammazzare il Servo alla fine del film, dice di essere
quell'uno su mille negri a cui Di Caprio accordava l'intelligenza. In
Django nessuno spirito di “classe”, cioè di “razza”. Sembra che gli stessi schiavi neri, vedendolo a cavallo, siano d'accordo con
Di Caprio: se quell'uomo è a cavallo, o è un Bianco o il mondo va
alla rovescia.
La divisione del mondo nel profondo Sud pare fatta così: ci sono i
Bianchi e ci sono i Negri, gli schiavi, come c'è la Terra che gira
intorno al Sole. Django non può essere il liberatore dei Negri
perché il Negro condivide, interiorizza la dominazione che subisce,
perché su quella dominazione si fonda l'ordine sociale,
l'organizzazione del mondo in ascisse e coordinate, il posto che
ognuno di loro (di noi) occupa nel mondo. È una dominazione che è incorporata da tutti, bianchi e neri, e che genera delle disposizioni insormontabili. Insomma, che un negro vada
a cavallo fa parte della sfera dell'impensabile.
Il padre di Di Caprio avrebbe potuto morire, un giorno qualsiasi,
sotto il rasoio di un negro che gli faceva la barba ogni mattina
sotto il portico della villa. Eppure, lo schiavo non gli ha mai tagliato
la gola. E perché avrebbe dovuto? Lo schiavo è schiavo perché non
sa di essere schiavo. E non credere che questo non ti riguardi.
Il Negro, insomma, non può liberarsi in quanto Negro perché la
dominazione che subisce è totale e non lascia spazio alla rivolta.
Django, infatti, finché è un Negro non si prende nessuna libertà.
La sua libertà è condizionata, prima di tutto perché è il Tedesco
che gliela dà, anzi, che gliela vende in cambio dell'aiuto ad
ammazzare quei tre farabutti le cui foto erano stampate sull'avviso
di ricerca (falso). Ma, dopo quell'affare, Django proprio non sa come
gestirla la sua libertà perché, in ogni caso, un posto per un Negro
libero nel mondo in cui vive non è previsto. Quando allora il
Tedesco gli propone di passare una stagione di caccia (di taglie) con
lui, Django non è libero ed accetta. Sono i rapporti di forza che scelgono per lui.
È da questo momento che iniziano le
peripezie di Django per giungere fino ai terreni di Di Caprio con lo
scopo di liberare la sua Brumhilde. È da questo momento che Django
comincia il suo cammino verso la libertà, in quanto eroe di una
favola popolare tedesca e protagonista di una commedia teatrale di
cui il Tedesco (e non Django) è il regista. E questo percorso di libertà è
prima di tutto un percorso di sbiancamento. Django deve sbiancarsi.
Va a cavallo, diventa un negriero, fa ammazzare qualche negro qua e
là. Ma, soprattutto, Django impara a parlare
come un bianco.
Fanon, nella seconda citazione, attribuisce una grande importanza al
linguaggio. Il linguaggio è la dimensione principale in cui la
dominazione del Bianco/dominante si esercita sul Negro/dominato (come ogni dominazione).
Il Negro non ha altra scelta che quella di incorporare, interiorizzare
il linguaggio del Bianco, la sua organizzazione linguistica del
mondo. Per lui, ormai, la sola maniera di migliorare la propria
condizione è quella di parlare come il Bianco, meglio del Bianco.
Il solo momento in cui Django si prende la sua libertà da solo?
Pensateci un po'... Verso la fine del film, quando il colpo da Di
Caprio è andato a puttane, il Tedesco e Di Caprio sono morti e lui è
portato in catene verso una miniera. Come si libera? Non spara un colpo
(cioè, fino a un certo punto). Django si libera con la parola.
Racconta ai tre carcerieri che lo scortano la storia di una banda di
criminali sulla cui testa c'è una taglia e che si trovano nella
villa di Di Caprio. Tira fuori allora l'avviso di ricerca che gli
aveva dato il Tedesco e aveva tenuto in tasca. Illustra ai tre
allocchi la convenienza e la facilità dell'affare e li convince
perché, come dice uno di loro, Django “parla come un bianco”.
E non solo parla come un bianco, ma addirittura racconta delle
storie, delle finzioni come un bianco. Da protagonista diventa
regista, come il Tedesco.
Ricordiamo che non solo il suo racconto ai tre sbirri è falso, ma
lo stesso avviso della taglia è falso così come lo erano tutti gli
avvisi del Tedesco. E questo gliel'aveva detto, a Django, lo
scagnozzo di Di Caprio quando stava per tagliargli il pisello. Il
Tedesco, un personaggio estremamente teatrale, gli aveva raccontato
tante, tante storie, tante finzioni e l'aveva diretto in queste
commedie.
Ora Django ha imparato a raccontare storie altrettanto bene, proprio
come un Bianco, e forse meglio. È grazie a questa arte di raccontare
storie che può prendersi adesso la propria libertà. Questo è un passaggio importante, meglio essere chiari: la libertà di
Django passa dalla sua capacità di apprendere dal bianco la
maniera di raccontare, di dire il mondo. Dalla sua capacità,
insomma, di integrarsi (termine di attualità...).
Elaborare una finzione è la patente per la libertà. La dominazione
non può finire se non all'interno del racconto che il Bianco fa del
mondo. La dominazione, insomma, non è sradicata e non può esserlo.
Tarantino sembra esserne convinto. Il suo film ci dice che la Storia dei Negri, la storia di una dominazione totale non può essere raccontata che nei codici dei narrativi dei Bianchi.
Come si racconta la liberazione di Django, con quali generi? Uno più
evidente, gli altri meno marcati. Il primo è ovviamente il genere
cinematografico del western. Il secondo, a cui si fa allusione ma che
fonda l'intrigo di Django, è quello della favola tedesca: un eroe,
una serie di peripezie e di prove che deve oltrepassare, la vittoria
e il premio che, generalmente, consiste nella liberazione dell'amata.
Il terzo, il teatro: Django è un attore al servizio del Tedesco,
regista di una commedia continua.
Tarantino si è fatto una domanda:
come rappresentare la Storia della dominazione schiavista? Quale
margine ho, io narratore bianco, di raccontare una storia di uno
schiavo nero? Tarantino si è risposto che questo margine di
narrabilità non gli è concesso (salvo a voler fare un film come Ken Loach). Quel che ha potuto fare, invece, è
stato riflettere sull'impossibilità di rappresentare la dominazione
schiavista al di fuori di questa stessa dominazione. Ha riflettuto
sulle possibilità che ha il linguaggio di rappresentare ciò che il
linguaggio stesso, nella sua radicazione sociale, non permette di
rappresentare. Rappresentare l'irrappresentabilità dell'impensabile. Insomma, Django Unchained
è un film metanarrativo, anzi metanarrabile. Ed è, secondo me,
soprattutto per questo che il film ci piace.
Siamo d'accordo con Tarantino oppure no? È possibile oppure no la
creazione di un discorso che evada la dominazione e la rinversi? È
possibile oppure no una rivolta, una rivoluzione?
Ciò che Tarantino sembra trascurare è la possibilità di qualsiasi azione collettiva. Il suo universo è individualista e non concepisce la solidarietà e l'associazione di individui. La prospettiva di Frantz Fanon è radicalmente differente, soprattuto ne I dannati della terra, scritto dopo essersi impegnato al fianco del Fronte di Liberazione Nazionale algerino durante la guerra d'Algeria (1954-62). Lo psichiatra di origine caraibica amplia la sua teoria per cui il colonizzato è dominato psicologicamente dal colonizzatore: la sola maniera per liberarsi da quest'ultimo è di ucciderlo, altrettanto violentemente quanto è violenta la dominazione coloniale. Questo processo violento di decolonizzazione non può essere che condotto collettivamente, al livello della comunità colonizzata. In effetti la dominazione è collettiva e solo collettivamente le si può sconfiggere.
Abbiamo bisogno di un Django che sia tutti noi. Quello di Tarantino, effettivamente, non lo è. È importante riflettere su un discorso comune, un immaginario condiviso che sia capace di ri-raccontare il mondo, di ricrearlo, di rimodellarlo per migliorarlo, insieme e in modo solidale, per ribaltare la dominazione di cui siamo schiavi senza saper leggerla.
Ciò che Tarantino sembra trascurare è la possibilità di qualsiasi azione collettiva. Il suo universo è individualista e non concepisce la solidarietà e l'associazione di individui. La prospettiva di Frantz Fanon è radicalmente differente, soprattuto ne I dannati della terra, scritto dopo essersi impegnato al fianco del Fronte di Liberazione Nazionale algerino durante la guerra d'Algeria (1954-62). Lo psichiatra di origine caraibica amplia la sua teoria per cui il colonizzato è dominato psicologicamente dal colonizzatore: la sola maniera per liberarsi da quest'ultimo è di ucciderlo, altrettanto violentemente quanto è violenta la dominazione coloniale. Questo processo violento di decolonizzazione non può essere che condotto collettivamente, al livello della comunità colonizzata. In effetti la dominazione è collettiva e solo collettivamente le si può sconfiggere.
Abbiamo bisogno di un Django che sia tutti noi. Quello di Tarantino, effettivamente, non lo è. È importante riflettere su un discorso comune, un immaginario condiviso che sia capace di ri-raccontare il mondo, di ricrearlo, di rimodellarlo per migliorarlo, insieme e in modo solidale, per ribaltare la dominazione di cui siamo schiavi senza saper leggerla.
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