Il caso delle aggressioni nei confronti della ministra Cécile Kyenge
ha recentemente rivelato come il razzismo sia, in Italia, socialmente
accettato, condiviso e promosso. Tuttavia, c'è secondo me un errore
di analisi del fenomeno. L'errore è di considerare il razzismo come
un fenomeno in sé, slegato da problematiche di altro tipo.
Basterebbe quindi dire “il razzismo è odio ingiustificato” per
vincerlo. Mentre invece bisogna criticarlo più profondamente.
Mi spiego. Ho imparato che il razzismo non è semplicemente “odio
di razza” nei confronti di chi è diverso da me. Il razzismo non
esiste in sé, isolatamente, ma all'interno di una società, in cui le
divisioni e le discriminazioni sono molteplici: di etnia, ma anche di
sesso, di classe, generazionali, culturali. Il razzismo interagisce
inevitabilmente con queste divisioni, è incastonato nell'insieme
delle gerarchie che organizzano la società e trae forza da esse.
Il caso della Kyenge lo illustra bene. In
particolare nei mesi scorsi c'è stato un episodio particolarmente
rivelatore di questo incastonamento sociale del razzismo. È il caso
della polemica del politologo Giovanni Sartori che, in un articolo
sul Corriere della Sera del
17 giugno, se la prendeva con la Kyenge in quanto “incompetente”
sul tema dell'integrazione.
L'articolo di Sartori
Il politologo Giovanni Sartori |
L'articolo è un insieme abbastanza delirante di
considerazioni assemblate senza coerenza alcuna. Possiamo tuttavia
individuare tre argomenti principali. Il primo è che la Kyenge, in
quanto medico oculista, non è titolata a occuparsi di integrazione:
cosa ne sa lei? La sola prova addotta dal politologo a supporto di
questa sua opinione è che la ministra probabilmente non ha “letto
il [suo] libro Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei, e
anche un [suo] recente editoriale” sul Corriere. Il secondo
argomento è che lo ius soli è storicamente adottato dai
paesi sottopopolati (bisognosi di ripopolamento) e non da paesi del
Vecchio Mondo (cosa non vera, vista la Francia), le cui condizioni
economiche non lo permetterebbero. In effetti, l'Italia è, sempre
secondo il professore, ormai satura, afflitta da una grande
disoccupazione giovanile e gli immigrati non possono che peggiorare
la situazione; al punto che Sartori lega come la causa all'effetto il
fatto che il numero di imprenditori immigrati cresce, mentre gli
italiani falliscono. Dato, però, non supportato da niente. Sarebbe
quindi un errore della sinistra questa apertura “terzomondista”
(il PD?!) nei confronti degli stranieri. Il terzo argomento è più
sostanziale. Sartori afferma che l'Italia non è un paese meticcio e
non può esserlo: solo i paesi sudamericani lo sono. Dice
precisamente che la Kyenge dovrebbe comprarsi con i soldi che le
passa lo Stato “un dizionarietto di italiano” per cercare la
parola “meticcio”. Inoltre cita, senza giustificare il paragone
con l'Italia di oggi, il caso dell'India che, durante il processo di
decolonizzazione, ha vissuto una divisione tra indù e musulmani tale
da dover fare una secessione e creare un nuovo stato, il Pakistan:
questo sarebbe un esempio dell'ineluttabile disintegrazione che
governa il mondo, frantumato com'è in blocchi di civiltà religiose
che si scontrano (non dimentichiamo che Sartori frequenta da anni
l'accademia americana, da cui proviene la tesi dello scontro di
civiltà di Huntington, tesi storica e ideologica che ha fondato la
politica estera delle presidenze Bush e la visione neo-conservatrice
del mondo).
Questi argomenti sono, evidentemente, molto deboli
e il tono di Sartori è molto polemico e poco incisivo. Insomma,
l'articolo è scritto particolarmente male, anche peggio degli
articoli che appaiono abitualmente su un giornale come il Corriere.
La direzione del quotidiano deve essersene accorta, al punto da
declassare il pezzo dalla colonna di sinistra, quella degli
editoriali, alla colonna di destra, quella degli articoli di spalla.
La cosa ha fatto inorridire Sartori, che ha minacciato di
interrompere la sua ventennale collaborazione da editorialista.
L'articolo ha avuto ovviamente un po' di risonanza e in tanti, per
esempio sul Fatto
quotidiano,
hanno notato alcuni degli elementi più palesemente contraddittori
delle tesi di Sartori. Eppure, queste riscuotono tutto sommato
successo presso i lettori, come dimostrano i commenti a quest'altro
articolo del Fatto.
Nessuno ha notato però l'insieme delle egemonie che quest'articolo
promuove, né ha spiegato come il razzismo sia necessario al
mantenimento dell'attuale ordine sociale (molto poco democratico).
Il razzismo e l'ordine socio-economico.
La tesi centrale, per la quale la sinistra terzomondista avrebbe
aperto le porte agli stranieri, causa del declino economico degli
italiani, è generalmente accettata e serve da una parte a non
interrogarsi sulle reali cause della crisi economica, dall'altra a
costituire “un'identità italiana” fittizia da opporre allo
“straniero”. L'etnicizzazione dei conflitti sociali ed economici
in tempo di crisi rinforza così la condizione attuale d'esistenza
della comunità nazionale e garantisce il mantenimento dell'ordine
sociale: nessuno si solleva contro chi ha causato la crisi
continuando ad arricchirsi perché si individua un altro nemico,
l'immigrato. Insomma, noi italiani contro loro stranieri: questa
divisione permette di non affrontare il fondo della crisi e di
costituire una segmentazione sociale che va a danno dell'elemento
debole, l'immigrato, garantendo a chi ha il potere di conservarlo.
È una vecchia tesi che riesce a riciclarsi attraverso i decenni.
Poco importa se in realtà l'Italia non ha mai aperto le sue porte
agli stranieri (basti guardare la repressivissima legge Bossi-Fini e
i suoi effetti). Poco importa anche che i giovani italiani abbiano
già cominciato a fare lavori dequalificanti e sottopagati, cosa che
Sartori sembra invece paventare soltanto per il futuro, segno che non
conosce un tubo della realtà italiana contemporanea.
Il razzismo e la democrazia
Un'altra importante dominazione che Sartori alimenta con il suo
articolo è di tipo politico. Il principale, e in fondo l'unico,
rimprovero che il professore fa alla Kyenge è di non essere titolata
ad occuparsi di integrazione. E questo è un argomento estremamente
interessante. L'idea di base è che, per fare politica ed essere
ministri, si debba essere competenti e titolati: cioè sei politico
solo se sei politologo, sei ministro dell'economia solo se sei
economista, sei ministro della sanità solo se sei medico. Per questo
la Kyenge, oculista, sarebbe inadatta al dicastero dell'integrazione.
Questa idea è purtroppo fondante della visione odierna della
politica, vista come semplice amministrazione della cosa pubblica:
per governare bene basta saper fare le cose, essere dei buoni
tecnici, onesti ed efficaci. Si tratta di una visione meritocratica
della politica, fatta su curriculum: depoliticizzazione della
politica. Ed è questa d'altra parte la visione che assicurava al
governo Monti il suo consenso iniziale ed è lo stesso tipo di
discorso portato avanti dal Movimento Cinque Stelle. Come se ci fosse
una sola maniera di fare le cose e di gestire la cosa pubblica; come
se gli interessi in gioco fossero sempre unici per tutti; come se la
politica fosse svuotata del suo compito principale: scegliere,
scegliere quale tipo di società e di economia costruire. Un tecnico
esegue, un politico sceglie.
Questo è evidentemente un problema
non solo di razzismo nei confronti della Kyenge, ma di visione della
democrazia. Il fondamento della democrazia è ben altro: che un
contadino, un operaio, un lavoratore delle pulizie o del call-center
diventino parlamentari e ministri. La democrazia non è
meritocratica, ma si basa sull'idea che esistono uno spazio pubblico
e una società civile sede di dibattiti e di lotte dalle quali
scaturisce il governo della cosa pubblica. Così, la legittimità
della Kyenge ad essere ministro dell'integrazione non deriva dal suo
titolo di studio, ma dal fatto che da anni conduce una battaglia
politica sul tema dello ius soli,
battaglia che ha ragion d'essere nella società contemporanea. È in
quanto militante politica e non in quanto oculista che
Kyenge è diventata ministra.
È d'altra parte per questa stessa ragione che nessuno ha mai chiesto
ad alcun ministro di mostrare la propria laurea prima di poter
accettare il dicastero. Strano che l'idea venga a Sartori proprio per
un ministro nero e donna.
Il razzismo e il sessismo
La presidente della Camera Laura Boldrini |
Nero e donna. Sì, perché la pulsione più forte del razzismo contro
la Kyenge è di tipo maschile e maschilista. L'odio contro la
ministra è un odio contro la donna. Il discorso di Sartori non è
solo quello di un italiano bianco nei confronti di un italiano nero,
ma anche e soprattutto quello di un uomo nei confronti di una donna.
La donna non deve far politica (certo, il Pdl è pieno di donne, ma è
tutta un'altra cosa...). Nel clima generale della politica italiana
questa è una convinzione abbastanza confessata che governa il
disprezzo reiterato nei confronti dei politici donna. La Kyenge non è
d'altra parte l'unica donna politica italiana ad aver ricevuto
minacce ed aggressioni. Anche la Boldrini, presidente della Camera,
ex-portavoce dell'Alto Commissariato ONU per i diritti dei rifugiati
e favorevole allo ius soli, è stata attaccata e, anche lì,
le offese si caratterizzano per una commistione di razzismo e
sessismo, sul tipo “portateli nel letto i tuoi negri e fatti
sgozzare”. Gli attacchi alla Kyenge e alla
Boldrini a sfondo razzista e sessista svalorizzano e delegittimano la
loro presenza in politica e questi attacchi provengono principalmente
da voci maschie: servono a perpetrare il carattere maschile della
politica, alla quale la donna non dovrebbe avere accesso.
Il razzismo e le classi sociali
Inoltre è importante riflettere al razzismo in Italia in legame alle
classe sociali. L'odio razziale di Sartori ha infatti un altro
fattore: la classe. Il suo è soprattutto un classismo.
Nell'immaginario di Sartori l'arabo o il pachistano ben vestito, in
giacca e cravatta e con una bella macchina, che fa un buon lavoro,
non è un problema. Sartori se la prende con la Kyenge quando questa
afferma che sono numerosi gli imprenditori di origine straniera: ma
“imprenditore è una parola elastica”, dice Sartori, “metti su
un negozietto da quattro soldi e sei un imprenditore”.
L'immigrato, in quanto commerciante troppo modesto o operaio,
contadino, muratore, non è un vero imprenditore né un lavoratore
come gli altri. L'idea che Sartori ha del lavoro è evidentemente più
capitalista, privilegia la ricchezza e non sopporta tutto ciò che
mostra povertà. È la povertà che molti italiani, dopo averla
collettivamente rimossa con il boom economico, vogliono rimuovere dal
proprio orizzonte di vita. È la povertà promossa dalle
rappresentazioni che si fanno dell'immigrato che dà fastidio. L'odio di Sartori per gli immigrati è quello di un ricco nei confronti di un povero.
Il razzismo e la cultura istituzionale
Quel che sembra rodere maggiormente al vecchio Sartori è il fatto
che la Kyenge non abbia (a suo avviso) letto il suo libro, che
conteneva delle proposte sull'integrazione degli immigrati in Italia.
Sartori dà così per scontato che se la Kyenge non si è filata le sue proposte è perché non le conosce –
e non perché evidentemente non valgono una ceppa. Questo sottintende
che, da una parte, la Kyenge non avrebbe nessuna capacità di
giudizio e, dall'altra, che nessuno resisterebbe alla genialità
delle idee dell'emerito prof. Ecco perché Sartori se la prende anche
con la mala fede degli altri che, pur se più intelligenti della
ministra, non gli hanno mai dato ascolto. “Il buon senso non fa
notizia”, dice.
Questo fatto è rivelatore del cattivissimo rapporto che gli
intellettuali e, in particolare, gli accademici italiani hanno con la
società civile e la politica. Per i presuntuosi professoroni non si
tratta di partecipare al dibattito pubblico apportando una visione
arricchita dalle proprie ricerche, ma di insegnare ai poveri
ignoranti, politici e giornalisti (il resto del mondo è
difficilmente preso in considerazione), come dovrebbero andare le
cose in un mondo normale. Questa presunzione e questo elitismo
professorale è riprodotto nell'accademia italiana, in cui i
professori sono depositari di un sapere vero che lo studente non può
che riprodurre, tentando di imitarlo senza potervi riuscire. Chi esce
dai ranghi non ha diritto di cittadinanza. Ma difficilmente il sapere
prodotto sarà, nel passaggio da una generazione all'altra, rimesso
in discussione, quindi innovativo.
L'aura di Sartori deve essere una delle ragioni per cui la direzione
del Corriere ha deciso di declassare, senza rinviarlo
all'autore, il pezzo. Bisognerebbe però sentirsi liberi di dirgli
che ha scritto un po' di cazzate. Nessuno è perfetto.
Così, il problema del razzismo nell'articolo di Sartori è anche un
problema di democrazia del sapere e della cultura: non basta essere
un'istituzione culturale, maschi e bianchi per dire cose
intelligenti.
Il razzismo e la gerontocrazia
Nessuno è perfetto. Soprattutto a novant'anni. Eh sì, perché
Sartori è del 1924. Siamo sicuri che sia tra gli intellettuali più
adatti ad occuparsi di un fenomeno così recente, come quello
dell'immigrazione in Italia e del dibattito sullo ius soli?
Perché non dare spazio, soprattutto sulle pagine dei grandi
giornali, a dei pensatori più giovani, che vivono nel mondo di oggi,
che lo capiscono e sanno interpretarlo? Perché non liberarsi dei
vecchi che, per quanto rispettabili, hanno forse esaurito le cose da
dire alla nostra società?
Ma questo problema è più ampio e tocca anche la proprietà dei
giornali e dei media, nelle mani di gruppi poco interessati a fare
davvero informazione e dibattito.
Lo storico neo-cons Samuel Huntington |
Il razzismo e l'identità
Questo è un grande malinteso del dibattito sullo ius soli. Le
rappresentazioni di questa problematica veicolano infatti l'idea che
sia in gioco l'identità dell'Italia e degli italiani, basandosi
sulla teoria dello scontro di civiltà (che abbiamo evocato prima): questa concezione dell'identità non ha infatti senso che all'interno di una più
vasta civiltà o cultura che bisognerebbe preservare. Invece lo ius
soli e lo ius sanguinis sono norme giuridiche e riguardano
non l'identità delle persone e dei gruppi, ché quella non si
definisce per decreto, bensì le condizioni pratiche di vita delle
persone. Lo ius soli serve semplicemente a permettere a chi è
nato e cresciuto in Italia di restarci senza dover fare un'infinita
tiritera dal diciottesimo anno di vita in poi, quando diventa
“immigrato” (mentre fino al giorno prima era italiano) e il suo
statuto comincia ad essere regolato dalla Bossi-Fini, legge che
cambia la vita, in peggio.
Ecco qualche riflessione sul perché il dibattito sullo ius soli e
la lotta contro il razzismo della Kyenge è legato ad altre questioni
e riguarda tutti. Il razzismo, purtroppo, non è solo. Liberarsi dal
razzismo significa liberarsi da tante altre dominazioni e
discriminazioni. Il razzismo è la punta dell'ice-berg. Battersi
contro di esso è battersi su più fronti. Ma quale strategia?