Traduzione di un
brano tratto da Moineau (Aden, 2012; pp. 77-80) di El-Mahdi
Acherchour, scrittore algerino di espressione francese. Chi parla è
Labbé che, mentre guida il suo autobus, racconta gli avvenimenti
passati del suo paese, Tizinda, ad un viaggiatore. Una sintassi
particolarmente tesa e le numerose ripetizioni di un lessico scarno
sono le caratteristiche stilistiche attraverso le quali l'autore
ricerca una narrazione della Storia del suo paese. Il romanzo non è
stato tradotto in italiano.
NB: non sono un
traduttore. Questa è la prima volta che traduco (per divertimento)
un testo. Non sono stato capace di trovare altra soluzione che una
traduzione abbastanza fedele all'originale per restituire l'opacità
propria di questa prosa. Ho evitato qualsiasi esplicitazione, per
lasciare intatto quell'elemento di estraneità che il testo mostra.
Era proprio un sabato
mattina e non era ancora mezzogiorno: non potevo dimenticarlo. Il
sindaco è già venuto in paese diverse volte. Diverse volte alcuni
testimoni, non più di una decina, l'hanno visto al centro, in piedi
di fianco a quel pupazzo di monumento che rappresenta un martire
ignoto del paese, eretto come un volgare palo verso il cielo e Dio sa
cosa; il sindaco, sin dalla prima metà del suo primo mandato,
l'aveva concepito e piazzato là, alla gloria dei Dieci Martiri del
nostro glorioso paese per metà in rovina a causa della guerra e per
metà abitato, secondo il padre di Mahrez, dai poteri invisibili che
anche lui chiamava angelici; ma questo monumento che aveva inaugurato
lui stesso l'inverno scorso in fretta e furia perché pioveva forte,
non poteva ottenere dal cielo quel che volevamo in paese: non aveva
nevicato, quest'inverno, né l'inverno successivo – un cattivo
segno, tutto questo, mi dice il padre di Mahrez lo stesso giorno.
Signore, non potrò
dimenticare tutto questo. Adesso il monumento, lo sprezzato monumento
che le giovani generazioni non senza ironia chiamano latoriffel,
non ne è quasi più uno, è quasi completamente sciolto il pupazzo,
deformato, sfigurato, ai cui piedi si possono ancora leggere i grossi
precetti della nostra giovane nazione introdotti da un grosso
bismillah-i-rahmane-i-rahim.
Al
centro del villaggio allora, diverse volte, potevamo vederlo, il
sindaco, grande come due uomini, scortato dai suoi uomini, due civili
ben vestiti e altri due in uniforme; potevamo vederlo, il sindaco
della baladia, sempre
più disprezzato che i giovani chiamano Deux Gaulle
alzando al cielo le due mani o a volte con le braccia, come lo vedevo
io da sempre, stranamente felice, pallido e pauroso, come se
s'aspettava di essere fucilato o decorato dal suo superiore o le due
allo stesso tempo.
Mi
ricordo ancora il giorno in cui era venuto, per tutt'altro; non era
ancora mezzogiorno; non potrò dimenticare tutto questo, signore.
Dietro di lui, c'erano solo delle persone come me e Tayyeb per
ascoltarlo; lo ascoltavamo insieme, ci annoiavamo insieme, e ce ne
andavamo insieme dritto dritto per andarci a sedere davanti Tayyeb,
da Tayyeb, per ascoltare qualcos'altro, delle storie millimetrate,
più vicine a noi tutti insieme, più ridenti, fino al tramonto; non
era ancora mezzogiorno.
– Questo
resterà un paese libero, quindi nuovo, dice una voce davanti a me.
Tutto il paese è nostro adesso. Era quella di Tayyeb, e subito a
aggiungere: «e
anche dei nostri antenati».
–
Niente di nuovo, vecchio mio,
anche le capre di Touchent sanno quello che hai appena belato, gli
ribatté il più annoiato di tutto l'insieme mentre spostava la sua
sedia al centro.
Ero
io, signore, e io adesso mi ricordo che era un sabato mattina al di
fuori del tempo; la neve, adesso potevamo dimenticarcela, mi dissi
pensando al padre di Mahrez.
Era
questo sabato là che era venuto per un'altra cosa, il sindaco: non
potevo dimenticarmelo. Si mise al centro – in seguito veniva da
solo, felice a stento, ma sempre altrettanto venato, pallido e
pauroso: un cattivo segno –, sempre al centro, davanti al negozio
di Tayyeb, per riunirci a decine e predicare con una voce che, per
metà di piombo, per metà persa in una confusione che potevamo
sentire come una specie di balbuzie, penava a penetrare le nostre
orecchie e le nostre anime religiosamente ordinate davanti a lui come
potrebbero essere quelle dei nostri antenati davanti all'Antenato, il
Santo, il Balbuziente. Ogni sabato, aveva queste parole per
concludere il suo lungo discorso che poteva introdurre soltanto con
le stesse parole, non balbettando ma vociferando stranamente: In
città, in tutte le città, pure nelle prigioni, non ne vogliamo, non
ne possiamo più di gente come voi, per Dio!
Gliele
avevo già sentite in bocca quelle parole, qualche sabato prima,
l'ultima primavera, nel suo ufficio dieci volte più grande della mia
stanza, dieci volte più pulito del negozio e di tutta la baladia
di
cui voleva fare una sempiterna primavera. Se ne stava là, immobile e
attonito della propria confusa presenza, come se non fosse mai stato
là, in quest'ufficio totalmente suo, per metà piombato nel
silenzio, per metà perso nella confusione più totale e totalmente
distante da noi, dal suo reame e dal tempo.
– Sono
qui per un'altra cosa, signore, dissi. Sono qui per la storia... Non
avevo finito di dire quel che volevo dirgli una volta per tutte
quando all'improvviso un braccio mi spingeva verso la porta. Era
quello dello stesso sindaco, forse disturbato dalla mia presenza e da
tutto ciò che io rappresentavo. Confesso, signore, che avevo una
faccia che non ricordava la primavera. Adesso capisco il sindaco al
quale avrei dovuto dire prima di uscire: ho capito bene, signore, ho
capito proprio tutto. Uscendo pensai: ho proprio capito, signore, ho
capito tutto.
Nel
suo ufficio, mi resi conto improvvisamente dell'interesse che aveva
per me negli ultimi tempi, tanto da accordarmi ora il privilegio
ufficiale e intimidatorio di avercelo faccia a faccia nel suo
ufficio, tirato a lucido, dominato dalla presenza dell'immensa
bandiera della nazione e dell'immenso ritratto del suo fondatore,
l'emiro Abd-el-Kader; c'ero ancora, fianco a fianco con lui, comme
lei e me adesso, signore. Penso che credesse che ero ancora ascoltato
a Tizinda – questo era sicuramente un po' vero prima, e potrebbe
esserlo ora se io non avessi scelto di di disfarmene, staccarmi da
tutto, mettermi in disparte per ritrovarmi dalla parte del linguaggio
dei motori e altri pezzi staccati – e che potrei convincere i miei,
gli asini, i cocciuti dalle orecchie incrostate di terra e di vento e
che adesso non ascoltavano più nessuno, neanche colui che saprebbe
disfarsene per fare il Santo, l'Antenato, il Balbuziente.
Nostro,
il paese, diceva il povero Tayyeb. Nel momento in cui stavo per
uscire per respirare finalmente l'aria, in disparte da tutti quegli
uffici dall'odore di scartoffie e candeggina, ho sentito la voce del
sindaco che gridava: «Se non vogliono più starmi a sentire, digli
almeno di stare a sentire quello che t'ho detto e stare a sentire
quello che mi dicono un po' ovunque: la gente come voi...» Non è
riuscito a raggiungermi, il Deux Gaulle, con i suoi due metri
e le sue duemila porcherie. Ripetendomi quel che mi aveva detto, ho
capito bene e ho pensato: lo so che non è gente PER BENE, come la
primavera, ma io, signore, sono venuto per un'altra cosa, sono qui
per la STORIA, quella dell'altro animale, il nuovo bus che non ho
ancora visto e che vorrei riuscire a vedere e a guidare un giorno; ma
ora si direbbe che lei mi ha già dimenticato, signore.