martedì 29 novembre 2011

L'adolescenza è il periodo più difficile

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La mano si muoveva nei pantaloni. Non riuscivo a vedere bene, ma capivo che la sua mano si muoveva nei pantaloncini blu. Avevo steso i piedi, allungato il corpo, cercavo di trovare una posizione meno scomoda possibile. Ero convinto che comunque non avrei dormito, a prescindere da quella piccola mano che si muoveva nei pantaloncini azzurri, forse blu. O forse non si vedeva bene e tutto era troppo scuro. E io ero l'unico a mantenere accesa la luce, perché sapevo che qualsiasi posizione avrei provato ad assumere, l'esito sarebbe stato lo stesso: la veglia, l'attesa, la pazienza nell'aspettare che il tempo passasse e consumasse i chilometri, la domanda se avevo sonno o no, se mi sarei mai addormentato o no. A noi uomini talvolta prude lo scroto, ci grattiamo i coglioni. Pensai che i primi peli che crescevano sul suo pube dovevano esserne la causa, la sua pelosa pubertà pizzicava su quei sedili. Ma vidi meglio, o piuttosto non volli più vedere male: non avrei dormito e la sua piccola mano, infilata nei pantaloncini blu (o azzurri se ci fosse stata più luce) di quel tredicenne, si muoveva su e giù. Il rumore dello sfregamento del tessuto celeste con le mutande che doveva indossare il tredicenne era inudibile, sopraffatto dai motori spinti al massimo per sopraffare i chilometri di quella costa d'Italia. Il rumore della sua masturbazione rinviava a me. E non potevo essere che io, perché non c'era nessuno intorno.

Non era la prima volta che ero cliente di quell'agenzia di trasporti. Doveva essere già la sesta volta che prendevo quel pullman per fare sempre lo stesso viaggio, la stessa tratta: Stazione Tiburtina, Gare Saint-Charles. Non è un viaggio comodo, quattordici ore, quasi tutte di notte, ma la notte non dura abbastanza per la lunghezza di quel viaggio. Ma quando non si hanno troppi mezzi, troppi soldi voglio dire, si viaggia come si può. E io lo stavo facendo, per l'ennesima volta dicevo, e in un pullman che adesso era stranamente vuoto, semivuoto.

Avevo scelto un posto sul lato sinistro, quello del conduttore, un po' più dietro della porta di centro. Mi ero seduto sul lato del corridoio, per poterci buttare le gambe una volta riempito il pullman di clienti. Affianco a me, al di là del couloir tout étroit, una coppia di francesi. Davanti a me, una vecchia signora parlava francese con suo nipote e con la gorgia. Poco più dietro, dal lato dei francesi, due sedili più dietro, un signore, solo. Nella mia mano, uno splendido romanzo pienamente statunitense ed ebreo: Everything is illuminated, di Jonathan Safran Foer, regalatomi da Michela per il mio compleanno, venti giorni prima. Forse l'avrei finito prima dell'arrivo... dipendeva solo dalla mia incapacità di dormire in quello scomodissimo pullman.

Era ormai mezzanotte, il pullman non si era riempito e non si sarebbe più riempito. La popolazione intorno a me era immobile. Il nipote faceva delle allées retour dal suo posto, in fondo all'abitacolo, al posto della nonna. Ero l'unico a non provare neanche a chiudere gli occhi e dormire. La mia luce restava accesa e sbatteva sulla pagina, sotto la canopia di pietra di un acero gigante, prende tra le mani il suo braccio morto, dice: Ti prego, abbassandosi sopra il morto indice di lui. Sì, crescendo, sì, la zingarella fa le ore dodici di sera. Mi dissi allora che la nonna, la rital, doveva aver preso ormai sonno, come tutti quelli che mi stavano intorno. Spengo la luce e vado a sedermi dietro, qualche sedile più indietro, riaccendo una luce. Il nipote, di fronte a me, come me con le gambe allungate in mezzo al corridoio. Ma lui era arrivato dopo. Il pullman vibra sull'asfalto e il suo pollice sfiora inavvertitamente il mio piede. Il pullman procede senza sussulti e il suo piede scalzo sfiora ancora il mio. Contatti fisici involontari in luogo pubblico. Ritirai il piede e l'appoggiai sul bracciolo, ma la sua mano giovane era infilata nelle mutande e toccava il pene. La sua gamba si stende e il piede scalzo mi sfiora, avvertitamente, volontariamente, sensualmente. Piedino. Indubbiamente il primo piedino ricevuto in tutta la mia vita.

Ritirai le gambe, mi rannicchiai al mio posto, infilai le scarpe e lo guardai in cagnesco. Lui si spostò, andò verso la nonna o forse in bagno, non so più... Poi tornò. Intorno tutti dormivano e l'unico rumore era il rombo del motore del pullman e l'immagine mentale della mia voce qui lui criait dessus. Avevo paura di un suo avvicinamento, delle sue possibili avances. Come respingerlo, come spiegare a quelli che ci avrebbero a quel punto sentito e visto, che era lui, il tredicenne accompagnato dalla nonna che aveva tentato di sedurmi, chi avrebbe potuto credermi. Pensai a Dominique Strauss Khan e mi spostai sul sedile avanti. Lui restò immobile, poi si alzò per fissarmi. Mi spostai e tornai dietro la nonna, dove mi sentivo finalmente al sicuro.

Area di servizio, bagno. Non scende quasi nessuno. Indosso una felpa, prendo lo zaino e il tredicenne mi anticipa, esce prima di me. Io lo seguo. Si fa seguire. Entra nel bagno dell'autogrill. Io lo seguo e entro. Cerco allora il giovane e incrocio il suo sguardo, tra i battenti di una porta aperta, il cesso alle sue spalle, gli occhi scuri, ben aperti su di me, gioiosi e abietti, e la carta igienica nella mano sinistra.