martedì 6 agosto 2013

La molteplice discriminazione: il razzismo, la Kyenge e il resto della società



Il caso delle aggressioni nei confronti della ministra Cécile Kyenge ha recentemente rivelato come il razzismo sia, in Italia, socialmente accettato, condiviso e promosso. Tuttavia, c'è secondo me un errore di analisi del fenomeno. L'errore è di considerare il razzismo come un fenomeno in sé, slegato da problematiche di altro tipo. Basterebbe quindi dire “il razzismo è odio ingiustificato” per vincerlo. Mentre invece bisogna criticarlo più profondamente.
Mi spiego. Ho imparato che il razzismo non è semplicemente “odio di razza” nei confronti di chi è diverso da me. Il razzismo non esiste in sé, isolatamente, ma all'interno di una società, in cui le divisioni e le discriminazioni sono molteplici: di etnia, ma anche di sesso, di classe, generazionali, culturali. Il razzismo interagisce inevitabilmente con queste divisioni, è incastonato nell'insieme delle gerarchie che organizzano la società e trae forza da esse.
Il caso della Kyenge lo illustra bene. In particolare nei mesi scorsi c'è stato un episodio particolarmente rivelatore di questo incastonamento sociale del razzismo. È il caso della polemica del politologo Giovanni Sartori che, in un articolo sul Corriere della Sera del 17 giugno, se la prendeva con la Kyenge in quanto “incompetente” sul tema dell'integrazione.
L'articolo di Sartori
Il politologo Giovanni Sartori
L'articolo è un insieme abbastanza delirante di considerazioni assemblate senza coerenza alcuna. Possiamo tuttavia individuare tre argomenti principali. Il primo è che la Kyenge, in quanto medico oculista, non è titolata a occuparsi di integrazione: cosa ne sa lei? La sola prova addotta dal politologo a supporto di questa sua opinione è che la ministra probabilmente non ha “letto il [suo] libro Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei, e anche un [suo] recente editoriale” sul Corriere. Il secondo argomento è che lo ius soli è storicamente adottato dai paesi sottopopolati (bisognosi di ripopolamento) e non da paesi del Vecchio Mondo (cosa non vera, vista la Francia), le cui condizioni economiche non lo permetterebbero. In effetti, l'Italia è, sempre secondo il professore, ormai satura, afflitta da una grande disoccupazione giovanile e gli immigrati non possono che peggiorare la situazione; al punto che Sartori lega come la causa all'effetto il fatto che il numero di imprenditori immigrati cresce, mentre gli italiani falliscono. Dato, però, non supportato da niente. Sarebbe quindi un errore della sinistra questa apertura “terzomondista” (il PD?!) nei confronti degli stranieri. Il terzo argomento è più sostanziale. Sartori afferma che l'Italia non è un paese meticcio e non può esserlo: solo i paesi sudamericani lo sono. Dice precisamente che la Kyenge dovrebbe comprarsi con i soldi che le passa lo Stato “un dizionarietto di italiano” per cercare la parola “meticcio”. Inoltre cita, senza giustificare il paragone con l'Italia di oggi, il caso dell'India che, durante il processo di decolonizzazione, ha vissuto una divisione tra indù e musulmani tale da dover fare una secessione e creare un nuovo stato, il Pakistan: questo sarebbe un esempio dell'ineluttabile disintegrazione che governa il mondo, frantumato com'è in blocchi di civiltà religiose che si scontrano (non dimentichiamo che Sartori frequenta da anni l'accademia americana, da cui proviene la tesi dello scontro di civiltà di Huntington, tesi storica e ideologica che ha fondato la politica estera delle presidenze Bush e la visione neo-conservatrice del mondo).
Questi argomenti sono, evidentemente, molto deboli e il tono di Sartori è molto polemico e poco incisivo. Insomma, l'articolo è scritto particolarmente male, anche peggio degli articoli che appaiono abitualmente su un giornale come il Corriere. La direzione del quotidiano deve essersene accorta, al punto da declassare il pezzo dalla colonna di sinistra, quella degli editoriali, alla colonna di destra, quella degli articoli di spalla. La cosa ha fatto inorridire Sartori, che ha minacciato di interrompere la sua ventennale collaborazione da editorialista. L'articolo ha avuto ovviamente un po' di risonanza e in tanti, per esempio sul Fatto quotidiano, hanno notato alcuni degli elementi più palesemente contraddittori delle tesi di Sartori. Eppure, queste riscuotono tutto sommato successo presso i lettori, come dimostrano i commenti a quest'altro articolo del Fatto.
Nessuno ha notato però l'insieme delle egemonie che quest'articolo promuove, né ha spiegato come il razzismo sia necessario al mantenimento dell'attuale ordine sociale (molto poco democratico).
Il razzismo e l'ordine socio-economico.
La tesi centrale, per la quale la sinistra terzomondista avrebbe aperto le porte agli stranieri, causa del declino economico degli italiani, è generalmente accettata e serve da una parte a non interrogarsi sulle reali cause della crisi economica, dall'altra a costituire “un'identità italiana” fittizia da opporre allo “straniero”. L'etnicizzazione dei conflitti sociali ed economici in tempo di crisi rinforza così la condizione attuale d'esistenza della comunità nazionale e garantisce il mantenimento dell'ordine sociale: nessuno si solleva contro chi ha causato la crisi continuando ad arricchirsi perché si individua un altro nemico, l'immigrato. Insomma, noi italiani contro loro stranieri: questa divisione permette di non affrontare il fondo della crisi e di costituire una segmentazione sociale che va a danno dell'elemento debole, l'immigrato, garantendo a chi ha il potere di conservarlo.
È una vecchia tesi che riesce a riciclarsi attraverso i decenni. Poco importa se in realtà l'Italia non ha mai aperto le sue porte agli stranieri (basti guardare la repressivissima legge Bossi-Fini e i suoi effetti). Poco importa anche che i giovani italiani abbiano già cominciato a fare lavori dequalificanti e sottopagati, cosa che Sartori sembra invece paventare soltanto per il futuro, segno che non conosce un tubo della realtà italiana contemporanea.
Il razzismo e la democrazia
Un'altra importante dominazione che Sartori alimenta con il suo articolo è di tipo politico. Il principale, e in fondo l'unico, rimprovero che il professore fa alla Kyenge è di non essere titolata ad occuparsi di integrazione. E questo è un argomento estremamente interessante. L'idea di base è che, per fare politica ed essere ministri, si debba essere competenti e titolati: cioè sei politico solo se sei politologo, sei ministro dell'economia solo se sei economista, sei ministro della sanità solo se sei medico. Per questo la Kyenge, oculista, sarebbe inadatta al dicastero dell'integrazione. Questa idea è purtroppo fondante della visione odierna della politica, vista come semplice amministrazione della cosa pubblica: per governare bene basta saper fare le cose, essere dei buoni tecnici, onesti ed efficaci. Si tratta di una visione meritocratica della politica, fatta su curriculum: depoliticizzazione della politica. Ed è questa d'altra parte la visione che assicurava al governo Monti il suo consenso iniziale ed è lo stesso tipo di discorso portato avanti dal Movimento Cinque Stelle. Come se ci fosse una sola maniera di fare le cose e di gestire la cosa pubblica; come se gli interessi in gioco fossero sempre unici per tutti; come se la politica fosse svuotata del suo compito principale: scegliere, scegliere quale tipo di società e di economia costruire. Un tecnico esegue, un politico sceglie.
Questo è evidentemente un problema non solo di razzismo nei confronti della Kyenge, ma di visione della democrazia. Il fondamento della democrazia è ben altro: che un contadino, un operaio, un lavoratore delle pulizie o del call-center diventino parlamentari e ministri. La democrazia non è meritocratica, ma si basa sull'idea che esistono uno spazio pubblico e una società civile sede di dibattiti e di lotte dalle quali scaturisce il governo della cosa pubblica. Così, la legittimità della Kyenge ad essere ministro dell'integrazione non deriva dal suo titolo di studio, ma dal fatto che da anni conduce una battaglia politica sul tema dello ius soli, battaglia che ha ragion d'essere nella società contemporanea. È in quanto militante politica e non in quanto oculista che Kyenge è diventata ministra.
È d'altra parte per questa stessa ragione che nessuno ha mai chiesto ad alcun ministro di mostrare la propria laurea prima di poter accettare il dicastero. Strano che l'idea venga a Sartori proprio per un ministro nero e donna.
Il razzismo e il sessismo
La presidente della Camera Laura Boldrini
Nero e donna. Sì, perché la pulsione più forte del razzismo contro la Kyenge è di tipo maschile e maschilista. L'odio contro la ministra è un odio contro la donna. Il discorso di Sartori non è solo quello di un italiano bianco nei confronti di un italiano nero, ma anche e soprattutto quello di un uomo nei confronti di una donna. La donna non deve far politica (certo, il Pdl è pieno di donne, ma è tutta un'altra cosa...). Nel clima generale della politica italiana questa è una convinzione abbastanza confessata che governa il disprezzo reiterato nei confronti dei politici donna. La Kyenge non è d'altra parte l'unica donna politica italiana ad aver ricevuto minacce ed aggressioni. Anche la Boldrini, presidente della Camera, ex-portavoce dell'Alto Commissariato ONU per i diritti dei rifugiati e favorevole allo ius soli, è stata attaccata e, anche lì, le offese si caratterizzano per una commistione di razzismo e sessismo, sul tipo “portateli nel letto i tuoi negri e fatti sgozzare”. Gli attacchi alla Kyenge e alla Boldrini a sfondo razzista e sessista svalorizzano e delegittimano la loro presenza in politica e questi attacchi provengono principalmente da voci maschie: servono a perpetrare il carattere maschile della politica, alla quale la donna non dovrebbe avere accesso.
Il razzismo e le classi sociali
Inoltre è importante riflettere al razzismo in Italia in legame alle classe sociali. L'odio razziale di Sartori ha infatti un altro fattore: la classe. Il suo è soprattutto un classismo. Nell'immaginario di Sartori l'arabo o il pachistano ben vestito, in giacca e cravatta e con una bella macchina, che fa un buon lavoro, non è un problema. Sartori se la prende con la Kyenge quando questa afferma che sono numerosi gli imprenditori di origine straniera: ma “imprenditore è una parola elastica”, dice Sartori, “metti su un negozietto da quattro soldi e sei un imprenditore”.
L'immigrato, in quanto commerciante troppo modesto o operaio, contadino, muratore, non è un vero imprenditore né un lavoratore come gli altri. L'idea che Sartori ha del lavoro è evidentemente più capitalista, privilegia la ricchezza e non sopporta tutto ciò che mostra povertà. È la povertà che molti italiani, dopo averla collettivamente rimossa con il boom economico, vogliono rimuovere dal proprio orizzonte di vita. È la povertà promossa dalle rappresentazioni che si fanno dell'immigrato che dà fastidio. L'odio di Sartori per gli immigrati è quello di un ricco nei confronti di un povero.
Il razzismo e la cultura istituzionale
Quel che sembra rodere maggiormente al vecchio Sartori è il fatto che la Kyenge non abbia (a suo avviso) letto il suo libro, che conteneva delle proposte sull'integrazione degli immigrati in Italia. Sartori dà così per scontato che se la Kyenge non si è filata le sue proposte è perché non le conosce – e non perché evidentemente non valgono una ceppa. Questo sottintende che, da una parte, la Kyenge non avrebbe nessuna capacità di giudizio e, dall'altra, che nessuno resisterebbe alla genialità delle idee dell'emerito prof. Ecco perché Sartori se la prende anche con la mala fede degli altri che, pur se più intelligenti della ministra, non gli hanno mai dato ascolto. “Il buon senso non fa notizia”, dice.
Questo fatto è rivelatore del cattivissimo rapporto che gli intellettuali e, in particolare, gli accademici italiani hanno con la società civile e la politica. Per i presuntuosi professoroni non si tratta di partecipare al dibattito pubblico apportando una visione arricchita dalle proprie ricerche, ma di insegnare ai poveri ignoranti, politici e giornalisti (il resto del mondo è difficilmente preso in considerazione), come dovrebbero andare le cose in un mondo normale. Questa presunzione e questo elitismo professorale è riprodotto nell'accademia italiana, in cui i professori sono depositari di un sapere vero che lo studente non può che riprodurre, tentando di imitarlo senza potervi riuscire. Chi esce dai ranghi non ha diritto di cittadinanza. Ma difficilmente il sapere prodotto sarà, nel passaggio da una generazione all'altra, rimesso in discussione, quindi innovativo.
L'aura di Sartori deve essere una delle ragioni per cui la direzione del Corriere ha deciso di declassare, senza rinviarlo all'autore, il pezzo. Bisognerebbe però sentirsi liberi di dirgli che ha scritto un po' di cazzate. Nessuno è perfetto.
Così, il problema del razzismo nell'articolo di Sartori è anche un problema di democrazia del sapere e della cultura: non basta essere un'istituzione culturale, maschi e bianchi per dire cose intelligenti.
Il razzismo e la gerontocrazia
Nessuno è perfetto. Soprattutto a novant'anni. Eh sì, perché Sartori è del 1924. Siamo sicuri che sia tra gli intellettuali più adatti ad occuparsi di un fenomeno così recente, come quello dell'immigrazione in Italia e del dibattito sullo ius soli? Perché non dare spazio, soprattutto sulle pagine dei grandi giornali, a dei pensatori più giovani, che vivono nel mondo di oggi, che lo capiscono e sanno interpretarlo? Perché non liberarsi dei vecchi che, per quanto rispettabili, hanno forse esaurito le cose da dire alla nostra società?
Ma questo problema è più ampio e tocca anche la proprietà dei giornali e dei media, nelle mani di gruppi poco interessati a fare davvero informazione e dibattito.
Lo storico neo-cons Samuel Huntington
Il razzismo e l'identità
Questo è un grande malinteso del dibattito sullo ius soli. Le rappresentazioni di questa problematica veicolano infatti l'idea che sia in gioco l'identità dell'Italia e degli italiani, basandosi sulla teoria dello scontro di civiltà (che abbiamo evocato prima): questa concezione dell'identità non ha infatti senso che all'interno di una più vasta civiltà o cultura che bisognerebbe preservare. Invece lo ius soli e lo ius sanguinis sono norme giuridiche e riguardano non l'identità delle persone e dei gruppi, ché quella non si definisce per decreto, bensì le condizioni pratiche di vita delle persone. Lo ius soli serve semplicemente a permettere a chi è nato e cresciuto in Italia di restarci senza dover fare un'infinita tiritera dal diciottesimo anno di vita in poi, quando diventa “immigrato” (mentre fino al giorno prima era italiano) e il suo statuto comincia ad essere regolato dalla Bossi-Fini, legge che cambia la vita, in peggio.

Ecco qualche riflessione sul perché il dibattito sullo ius soli e la lotta contro il razzismo della Kyenge è legato ad altre questioni e riguarda tutti. Il razzismo, purtroppo, non è solo. Liberarsi dal razzismo significa liberarsi da tante altre dominazioni e discriminazioni. Il razzismo è la punta dell'ice-berg. Battersi contro di esso è battersi su più fronti. Ma quale strategia?