venerdì 28 settembre 2012

L'insostenibile leggerezza della xenofobia


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Come descrivere la sensazione che prova il giovane espatriato italiano quando pensa al suo paese d'origine?
Rifiuto?
Disprezzo?
O rancore?
Nel mio caso, scelgo l'ultima opzione e, in questa, ci metto anche le prime due.
Questa rabbia, in realtà, testimonia un attaccamento non minore al proprio paese di origine che la nostalgia. Ma, tant'è, ogni volta che sento parlare italico o che intravedo il rischio di dover relazionarmi con qualsiasi essere vivente o cosa facente mostra di peninsularità, rifuggo.
Al punto che convivo in coppia con un'italiana, con la quale ho d'altra parte interdetto l'uso del francese per le conversazioni quotidiane. Ma, a parte questo, zero Italia.
Dopo tanti anni di esodo, sono tornato a far parte del popolo dei telespettatori. Ma non è stata colpa mia. Le contingenze, il mercato... Fatto sta che nel contratto ADSL o fibra ottica che abbiamo stipulato è inclusa anche una scatola che si chiama Free Revolution, che di rivoluzionario, tra tante altre cose, ha il fatto di permettermi di guardare circa 500 canali televisivi del mondo intero. C'è France1, Canal+, CNN, Berbère TV, AlJazeera, Telesur e compagnia bella. E quando, facendo zapping, arrivo intorno al cinquecentoquarantesimo canale, la tentazione è forte di fare ancora una ventina di passi in avanti e raggiungere le tre reti RAI e un canale Mediaset, che deve essere nato quando già mi ero emancipato dal giogo televisivo, cioè in epoca digitale.
Senza opporre troppa resistenza, faccio capolino tra i canali e vado a vedere se Pippo Baudo è ancora lì, insieme a Chi l'ha visto e la Carrà, come chi prima di andare a letto fa un giro in casa per vedere se i bambini hanno preparato lo zaino, il gas è spento e tutto il resto è in ordine. Poi il tempo di incazzarsi, di dirsi che la televisione italiana è uno schifo e cambiare canale.
Repubblica, vi giuro, ho smesso di leggerlo quando ero ancora in Italia. Non vado neanche più sulla home.
Per andare in bagno, nella biblioteca dell'università, si è obbligati a passare affianco all'angolo giornali. Oltre alla stampa francese c'è anche quella estera e l'Italia è rappresentata dalla Repubblica, che i miei occhi nascondono bene tra El Paìs e Le Canard Enchaîné, e l'Espresso, che invece è difficilmente eludibile.
Terzo in alto da sinistra, un colpo d'occhio e la ricerca del sommario, tra pubblicità invisibili e editoriali illeggibili, comincia. Ad attirare la mia attenzione è stata la copertina di venerdì scorso: una gran bella foto nitida, con due ragazzi e due ragazze in un ambiente urbano, in piedi o appoggiati su un blocco di cemento pieno di manifesti incollati; sullo sfondo, un palazzo in vetro che, se mi fossi deciso a comprare quel biglietto per Berlino qualche anno fa, riconoscerei senz'altro; e poi, soprattutto, il titolo: I NUOVI EMIGRANTI.
Cazzo, sono io.
Finalmente un giornale, un settimanale di centrosinistra ha deciso di affrontare il tema: la nuova emigrazione italiana. Mi avvicino curioso all'oggetto. Il sottotitolo è andabile, nonostante qualche ritocco che gli avrei fatto qui e lì:
Giovani, laureati e disoccupati, hanno deciso di compiere il grande passo: lasciare l'Italia in cerca di un lavoro. Come cent'anni fa. L'Espresso racconta le loro storie. Di disperazione e di speranza.
Mi preparo alla lettura del pezzo senza neanche sentirmi in colpa per aver posticipato così la ricerca dell'Estetica di Hegel. Ne va delle sorti patrie.
Scovo allora il sommario a pagina 25 (ormai non mi frega più: corro diretto oltre tutta quella monnezza) e controllo quante pagine hanno dedicato all'argomento. Sei. Pochine. Per di più circa i due terzi dello spazio è occupato da: una foto gigantesca di una fricchettona con un orecchino largo quanto un hula hoop che si chiama Verena e che fa la barista a Berlino; uno strillo che racconta in maniera succinta la storia di Verena; la foto di un tipo con la t-shirt della carhartt che trascina un trolley affianco ad un Malpensa Express lucidato a nuovo; trafiletti; didascalie e altre foto accessorie. Insomma, a prima vista non è di certo un dossier ben nutrito. Non per lo meno da meritare la prima pagina.
La tesi del giornalista è che c'è una nuova generazione di italiani, “i figli nati negli anni Ottanta” (decennio ricordato – perché no? – “per la Coppa del mondo, la vittoria sul terrorismo, la fine del terrorismo”; e Craxi? e Maradona e il Napoli che vincono lo scudetto? e Chernobil, il referendum per il nucleare, quello sull'aborto? il Concordato nell'84, la scalata di Berlusconi, Berlinguer muore!), una nuova generazione di italiani, comunque, che emigra per cercare lavoro. La cosa interessante è che non si tratterebbe della ben nota “fuga dei cervelli”, di tutti quei ricercatori che, non trovando spazio in Italia, fanno fortuna all'estero. No. Si tratta di comuni laureati e diplomati “che all'estero vanno a fare i muratori, i baristi, i lavapiatti”, insomma una cifra di lavori de merda. Pur di non starsene in Italia...
Il giornalista insiste, volendo far percepire al lettore italiano la gravità della cosa:
Laureati e diplomati che nella spietata gerarchia dei lavori di fortuna spesso vengono all'ultimo posto dopo turchi, arabi e cinesi.
Che schifo. Peggio delle bestie. Come non scandalizzarsi del fatto che i laureati italiani seguono, nel carro degli sfigati, gente che si trova ai margini del mercato del lavoro essendo per definizione turchi, cioè mendicanti, arabi, cioè venditori di fumo, cinesi, cioè venti-in-una-stanza-di-nove-metli-quadlati-a-cucile-gonnelline-nella-zona-industliale-di-Plato. Non è orribile?: noi peggio di loro, che ce li eravamo presi proprio per dirci che c'era di peggio, c'è sempre peggio e il peggio è un po' negro o un po' a mandorla.
Poche righe dopo, il giornalista, benché non sia cosciente della scaltrezza con cui la xenofobia gli ha fatto scrivere quella frase in fin di paragrafo, sente comunque l'esigenza di far capire bene da che parte sta e lancia un monito al lettore:
Immaginate se adesso in Germania e in Svizzera, le principali mete dell'esodo, qualche Umberto Bossi locale giudicasse i nostri emigranti un pericolo per le tradizioni, un'invasione de respingere.
Ecco, immaginatevelo un po'. Stronzi.
E siccome, oramai, ci siamo ridotti come loro, arabi, turchi, cinesi e negrame vario destinato a lavori sottoqualificati per ragioni di razza, colore e passaporto:
Ecco le storie. Raccolte con le stesse domande che soltanto nel 2009 L'Espresso aveva rivolto ai ragazzi africani che affollavano Agadez e la rotta del Sahara verso l'Europa. Ai coetanei che nel 2006 subivano le violenze dei caporali nei campi di pomodoro in Puglia. Ai sopravvissuti che nel 2005 si calpestavano nel centro di detenzione a Lampedusa. Il vento è girato.
Già, perché il giornalista in questione è Fabrizio Gatti, l'autore di Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, in cui racconta la sua esperienza di ripescato in mare, detenuto nei centri di detenzione e non so che altro, visto che il libro non l'ho letto. Insomma, una persona che sa cosa significa migrare.
Dopodiché, Gatti ci ricorda che c'è di peggio: i nostri nonni. E un po' di sano paternalismo. Loro sì che migravano per davvero, che andavano a lavorare e a morire a Marcinelle. Mica come oggi, che “si progetta l'uscita con un occhio a Facebook. Il passaparola corre tra i post degli amici. […] Il viaggio non dura più nottate insonni in treno. Ci sono le compagnie low cost. Poche decine di euro e due ore di volo.” Ma, come negarlo, “dentro, nell'animo, lo strappo è altrettanto forte”.
Segue la storia di Marco, un ragazzo che vive a Berlino. Gli ha detto piuttosto male e si è fatto inchiappettare (metaforicamente) come si deve su un paio di posti di lavoro. E l'occasione non manca per ricordare come sia i turchi che gli arabi: “lo sanno tutti che non pagano”.
Da questo dossier (che non è un dossier, ma un banale articolo qualche colonna) trasuda quell'inconsapevole, e non per questo innocente, xenofobia che si maschera di vicinanza e di comprensione per l'immigrato, buono quanto (o perché) disperato. È una xenofobia sottile.
Riuscire a mettere sullo stesso piano l'emigrazione italiana odierna e l'emigrazione africana è così banalmente scorretto e fuori luogo che non si trova nessun'altra ragione per giustificarlo al di fuori della convenienza giornalistica: ho fatto quei pezzi così fighi qualche anno fa, non c'entrano un granché, ma così ci metto un po' di disperazione in più e stai a vedere che se ci metti quel tocco di colore in più, piace.

Il vento è girato. Ieri eravamo sopra, oggi sotto. È uno scandalo, lo so. Meno male che ci sono Facebook e RyanAir che ci rendono la vita più facile rispetto ai nostri nonni. E anche rispetto a quei poveracci, quelli un po' negri un po' gialli.

domenica 23 settembre 2012

L'ultima festa dell'Unità (parte seconda)

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Leggi la prima parte qui.

Dei minuti, delle ore prima che Amin arrivasse, Fred finiva il piatto di spezzatino. Per esaltare il sapore della carne sorseggiava il vino, lo stesso che era servito qualche minuto prima per augurare la salute a Gina e che scorreva da anni nelle vene del marito. In quel momento di contemplazione gastronomica una folata di vento portò alle sue orecchie una nuova scampanata parrocchiale e al suo naso l'acre odore del letame.
Dei minuti, delle ore prima che Amin arrivasse, il grande ospite della serata si avvicinava il più possibile al centro della piazza, oltre il limite imposto alle altre automobili. Al segretario regionale del partito si avvicinò una giovane donna, che era stata presentata a Fred dal suo amico Amin qualche settimana o qualche mese prima e che era al momento una delle più brillanti e innovative, girava voce, personalità del partito. A Fred pareva che la giovane donna vestisse in maniera troppo elegante per non diffidarne. Si strinsero virilmente la mano.
Il segretario regionale del partito salutò cortesemente il vecchio professore, il marito di Gina e qualcun altro, che venivano ancora rispettati in nome delle parole sensate che tanti anni prima, qualche decennio, avevano speso per le povere genti di quell'angolo di mondo proletario, soprattutto contadini, pur non ottenendo alcun successo.
Fred non poté impedirsi di notare che nessuno osò offrire il buon spezzatino, il più buon spezzatino di tutte le feste dell'Unità sul territorio nazionale, al nuovo ospite, il più importante sul territorio regionale. Guardando il vassoio di frutta che gli veniva portato, Fred si domandò come avesse fatto l'uomo a diventare segretario e consigliere regionale con quella sua intolleranza alla carne, alle proteine della carne e ai suoi derivati, in un angolo di mondo come quello, dove i voti si misuravano con i chili di carne offerta agli elettori in mesi, in settimane pre-elettorali. Come un uomo che si nutriva solo di frutta e verdura avesse fatto a diventare il politico che era, seppur perdente alle urne, in un angolo di nazione dove maiali, agnelli e vitelli venivano sacrificati per ringraziare iddio e i suoi rappresentanti democratici del benessere acquisito negli ultimi anni, negli ultimi decenni, dopo quella guerra di cui si era tanto sentito parlare e che, a un certo punto, si era anche vista passare, per qualche giorno e con tanta paura.
Il segretario salì sul palco, interrompendo le stonate danze popolari del gruppo tradizionale apprezzato tutti gli anni, da dieci anni, dagli organizzatori della festa, e si apprestava a proferire qualche parola essenziale, molto essenziale perché tutti capissero, sul futuro della povera ma feconda terra sulla quale vivevano, al giorno d'oggi non troppo radioso.
Fu soprattutto a questo punto che Fred sentì la mancanza di Amin, quando le circostanze mostravano visibilmente che non c'era nessun'altra possibilità, durante il quarto d'ora che seguiva, che ascoltare il discorso noioso e vuoto del segretario, fatto di parole semplici, ma con qualche filosofema usato a sproposito per ricordare che la sua automobile era una Lancia Thesis che poteva arrivare, grazie a delle icone adesive ben in mostra sul parabrezza, al di là dei limiti preposti per le altre banali auto.
Fu a questo punto, soprattutto alla parola palingenesi usata dal segretario per dire qualcosa che Fred non capì, a un momento in cui il marito di Gina si era distratto, mentre sua moglie aggiungeva un po' di sale al suo spezzatino, e il professore mentiva a se stesso sulla compiutezza del discorso del suo giovane amico ed eletto, fu a questo punto che un senso di vomito colse Fred. Come un'intolleranza, un'intolleranza a quello spezzatino, ormai troppo salato, a quel vino e a quel letame, a quel letamaio in cui era seduto.
Fu a questo punto che Fred decise di interrompere la sua attesa e di andare via, prima che il suo amico Amin arrivasse, prima che non gettasse un voto, un altro voto, prima che il suo racconto non fosse omologato al loro, a quello della gente del partito. Fu a questo punto che Fred decise di non sentirsi rappresentato, di non voler essere rappresentato. Compagno di viaggio di nessuno, Fred ripartì, con i due sacchi a pelo nel cofano, per colpa tutto sommato di una parola usata male, di un discorso senza senso, di un comizio che l'aveva fatto arrabbiare, indignare.

domenica 16 settembre 2012

L'ultima festa dell'Unità (parte prima)

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Fred faceva le cose con calma e puntualità. Una notevole differenza rispetto al suo amico Amin, che amava fare le cose con troppa, troppa calma. Arrivare puntuali è maleducazione, si giustificava lui. Ciononostante Fred continuava a presentarsi in orario agli appuntamenti con il suo amico. A dire il vero, non riusciva mai a ricordare, o forse a capire quale fosse l'orario dell'appuntamento; in serata, ci si diceva, in serata, che non erano le nove, che non erano le otto.
Fred si muoveva con calma e puntualità, anche perché non voleva arrivare dopo che il cibo fosse finito. Partiva con una certa previdenza e caricava il cofano di sacchi a pelo, due in genere, sapendo che l'alcol sarebbe finito e che non avrebbe guidato ubriaco. Fred amava le attese, perché gli permettevano di osservare il mondo, diceva, e conoscere gente nuova, unirsi al loro tavolo, fare due chiacchiere. Fred è un chiacchierone buongustaio e raffinato, dalla bocca piena di parole e di cibo, alternativamente.
Da quando viveva fuori non ne aveva più mangiati, di spezzatini di fegato. Esaminava la consistenza dei piselli verde scuro, dalla scorza integra e la polpa tenera, quella della cipolla, molle sulla lingua e dal gusto delicato. Mai riuscito a cuocerla così, sarà una cosa da donne.
Di fegato, nella zuppa, ce n'era poco. Si dice che anche dalle sue parti i palati siano diventati ormai più delicati e tollerino poco i sapori forti e pastosi delle interiora. A questa ragione Fred imputava la rarità del fegato nella brodaglia, scartato a favore del più accettato trancio di vitello. Ma sulla qualità del piatto nessuno manifestava dissensi. Anzi, Fred poteva ascoltare, seduto nell'atteggiamento di chi è arrivato troppo presto e cerca compagnia, il segretario, faccia conosciuta, vantarsi dell'ottima gastronomia che il partito era pur sempre in grado di offrire, anche in tempi così duri, ai suoi iscritti, simpatizzanti e votanti (dietro modico corrispettivo).
Come lo fa Gina, lo spezzatino, non ce l'ha mai fatto nessun'altra. E tutti si bevevano un bicchiere di vino rosso, riempito dal marito di Gina, alla salute della santa donna, che aveva sopportato tre parti, la disgraziata morte del primogenito, le invidie della cognata e che sopportava tuttora suo marito, i suoi bicchieri e l'odore della friggitrice che gestivano affianco i più giovani iscritti, esagerando con il sale per assetare i comuni elettori. Non aspettava altro, Fred, che la Gina si manifestasse al terzo brindisi in suo onore con un bicchiere riempito a metà, per carità, non di più, per farle i complimenti, che buono, che buono lo spezzatino.
Mangiava lentamente, Fred. Bagnava il pane nel sugo, poi imboccava una forchettata, masticava. Almeno fino all'arrivo di Amin, aveva bisogno di un buon motivo per starsene seduto lì, a quel tavolo, e stare a sentire i discorsi delle principali personalità della struttura provinciale del partito.
Mentre addentava il vitello placidamente, un doncamillo ritenne opportuno di lanciare all'aria una bella scampanata per segnalare la messa delle dieci di sera per la Madonna del Carmine. I rintocchi si accavallarono ai tamburi suonati dal gruppo di musica popolare apprezzato ogni anno da dieci anni dai nipoti insipidi e sciupati dei pepponi d'antan; si confusero con le scampanellate delle vacche della non lontana stalla, da cui il vento portava a tratti anche i muggiti e zaffate di letame; e offrirono al segretario il pretesto per rimarcare come una volta, quando si era ancora un po' cristiani a questo mondo, le feste dell'Unità non si sovrapponessero con quella del Carmine. Una volta la festa dell'Unità la si faceva ad agosto, quando c'erano pure i tedeschi che tornavano e facevano qualche cliente in più.
Niente più era come prima, neanche il sapore dei vitelli, ciò che non poteva comunque nuocere alla riuscita dello spezzatino di Gina. Le carni erano diventate più grasse, le pance dei politici pure e ai sindacalisti spettavano gli avanzi. Il Presidente, quanto a lui, era la rovina del paese, che l'aveva spezzato in due e se non ce ne si liberava, non si sa dove andare a parare.
A Fred pareva che non si parlasse che di lui, del Presidente, dell'Ipernominato e Cavallerizzato Presidente, più volte imputato nel corso della serata per i mali del paese e per quelli dei suoi detrattori, si difenderebbe il Presidente. Il Cavallerizzo e Irrispettabile Presidente era l'Onnipresente argomento e soggetto della serata dell'Unità, una delle ultime nella storia di questo paese, più presente delle campane, del letame e perfino dello spezzatino di Gina.
Lo Stranominato e Straviziato Presidente, Cavaliere delle sue Puttane, era la causa del disfacimento morale del paese, che nonostante tutto, nonostante gli altri Presidenti, aveva sempre mantenuto, nelle Aule, una certa decenza e moralità.
Il vecchio professore, che Fred conosceva dai tempi del liceo, portava gli stessi baffi di quando redasse lo statuto della sezione cittadina del PCI, qualche anno, qualche decennio prima. Imbiancato con l'età, il pelame sovralabiale conservava bene i segni colorati della salsa dello spezzatino, liberandosene goccia per goccia quando la testa del vecchio professore in pensione decideva di parlare e predicare contro la penosa condotta del Presidente.

Leggi la seconda parte qui.