venerdì 9 novembre 2012

105 Grotte Celoni Termini

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Ripercorrere per la seconda volta nello stesso giorno il tragitto del 105 non era una cosa abituale per te. Giardinetti, Centocelle, Torpignattara, un'ora di semafori, di macchine di traverso, di strade troppo strette e persone troppo incazzate. Ripercorrere per due volte nello stesso giorno quel percorso significava avere qualcos'altro da fare in città oltre al lavoro, il solo lavoro che eri riuscita ad ottenere dopo mesi di ricerca e che la tua laurea in ingegneria meccanica era riuscita a darti in Italia, cioè donna delle pulizie, anzi la signora che rifà i letti, perché così il concierge non aveva l'impressione di sporcarsi la bocca con quelle parole che parlavano di te.
Ripercorrere per la seconda volta nello stesso giorno il tragitto che ti portava dal quartiere al centro di Roma significava avere qualcos'altro da fare in città oltre a pulire le stanze di un hotel di lusso sporche degli stessi liquidi e delle stesse secrezioni di qualsiasi altro hotel, in cambio di tre euro all'ora, delle avances di quel congierge che aveva passato i due terzi della sua vita in réception e di nessun contratto. In città, ci avevi portato qualche volta i tuoi figli, con un pallone e un passeggino, a Villa Borghese, passando dall'hotel per non perderti, ma dopo che ti eri fatta fermare da quel carabiniere e ti eri sentita gli occhi di tutti puntati addosso non ti sentivi a tuo agio e preferivi restare nel quartiere.
Erano pochi i motivi per cui si andava in città, a parte un cattivo lavoro in ambienti di lusso. E se non si andava a lavoro, o si andava a Termini oppure c'erano rogne. Mentre il 105 tagliava in direzione della Prenestina sul Ponte Casilino, pensavi da una parte che i ragazzi del Circolo degli Artisti non ti avevano più chiamata per dare una passata ai vespasiani la domenica mattina, dio santo che puzza, e dall'altra che, nel tuo caso, erano rogne. E pensavi anche che, questa volta, te l'eri meritate.
Mentre il mezzo sul quale viaggiavi ti avvicinava, per la seconda volta nello stesso giorno, alle mura aureliane, ripensavi al discorso che ti eri preparata, alla scaletta, a quelle tre o quattro frasi e parole chiave che ti sembravano convincenti, da dire davanti a quelle persone, dio sa in quanti ti aspettavano; macché aspettare, chissà se si presenteranno.
E mentre cercavi di riflettere al futuro prossimo, imminente, il ricordo di qualche giorno fa, quando ti sei cacciata in quel pasticcio e non hai saputo tenere la bocca chiusa, è ancora fresco. Ti mordi la lingua e ti dici che è la prima e l'ultima volta che ti prenderai questa responsabilità e che se dovesse andare male, meglio cosi': non ci sarà più da tornarci, in città. Se non per lavoro.
Ti mordi ancora la lingua e pensi che, tutto sommato, è una buona occasione quella che ti si presenta e che dovresti sfruttarla, per il bene di tutti. Pensi anche che potrebbe essere una trappola, di quel consigliere, quel giovane di cui non ti sei mai fidata, che è venuto a parlare nel quartiere qualche settimana fa e per colpa del quale ti sei cacciata in questa situazione. L'avvocato delle cause perse, te l'ha detto tuo marito, ti sei messa a fare l'avvocato delle cause perse, come se non ne avessimo già abbastanza.
Non ti sei mai fidata di quel ragazzo, e fai bene, ti direi io. Uno che va da gente che non puo' votarlo, o è un fesso, o ha secondi fini.
Ma quando i ragazzi di quel centro sociale in fondo alla strada, la stessa lunga strada lungo la quale si trova il casermone in cui un ufficio del comune ti ha assegnato un alloggio popolare, a 12 km e un'ora mezza dal centro, cioè dal tuo posto di lavoro, e in cui vivi da non sai più quante manciate di anni, abbastanza per aver ripulito il tuo italiano da qualsiasi accento sgradevole alle orecchie del concierge e qualche migliaio di cessi sparsi tra piazza Fiume e Circo Massimo, i ragazzi del centro sociale hanno organizzato un'assemblea di quartiere e te l'hanno fatto sapere tramite un volantinaggio selvaggio in tutte le cassette della posta e un attacchinaggio che puzza di colla a tutte le fermate degli autobus, compresa quella dove scendi ogni giorno di ritorno dall'hotel a cinque stelle dove di mestiere fai la signora che rifà i letti. Fai una telefonata a tuo marito per dirgli di scaldare quel paio di avanzi dell'Aid che trova in frigo, sul secondo ripiano dal basso, in fondo a sinistra, stanno lì da due giorni, bisogna mangiarli comunque, e gli spieghi che avresti fatto un salto all'assemblea, per vedere, sentire, sì, insomma, sapere cosa si dice.
Visto l'attacchinaggio e il volantinaggio, t'aspettavi un'affluenza più numerosa e invece in quello stanzone non c'è maniera di passare inosservati. E meno male, perché lo stanzone non sarebbe mai stato abbastanza grande se soltanto un'ala intera del casermone in cui abiti fosse andata all'assemblea.
Se soltanto ci fossero stati più partecipanti, ti dici a bordo del tuo 105 con i cui sedili hai ormai familiarizzato, avresti forse avuto qualche possibilità in meno di intervenire e qualcuna in più di startene in silenzio. Come tuo marito ti rimproverava di non aver fatto. Così, quando quel giovinotto dai capelli biondi, il jeans strappato e gli occhiali vi spiegava (parlando in un italiano storpiato, adattato a voi stranieri, tanto che a un certo punto hai pensato che fosse un po' dislessico) che c'era la maniera di far sentire la propria voce in comune, che c'era un'iniziativa dell'opposizione, accettata dalla maggioranza, di aprire le “consultazioni di quartiere”, una sorta di organo consultivo in cui i cittadini prendevano la parola per spiegare i problemi del proprio quartiere, fare richieste, lamentele, proposte, e cosi' via.
Appena uscita dall'assemblea, ti sei detta che questi organi consultivi non servono mai a nulla, sono dei finti eventi politici che guadagnano un paio di colonne sui giornali locali un paio di volte alla settimana e un paio di virgolettati per qualche candidato, e che tutto si risolve in un insieme di cartastraccia senza seguito. Ti dici anche gli altri l'avevano già capito e avevano fatto bene a disinteressarsi della cosa, a dire che era ora di tornarsene a casa dopo un giorno di lavoro. Ti dici anche che non avresti dovuto essere così caparbia nel dire che almeno una volta, almeno quella volta che la parola ci veniva data, per la prima volta, dopo che il loro quartiere era conosciuto solo per i tunisini che spacciano, per i rumeni che stuprano, per le donne che non si tolgono il velo, per i senegalesi che s'incazzano per i permessi di soggiorno, per questo o per quest'altro che scrivono ogni giorno i giornali su di noi senza essere mai venuti a chiederci cosa ne pensassimo; almeno una volta, questa volta che il nostro avviso veniva chiesto e che questo ragazzo di un qualche partito di sinistra che vi trattava bonariamente come dei deficienti temendo che non capiste né la lingua italiana né la democrazia (o qualcosa che ci si avvicina ogni giorno di meno in questo paese), almeno questa volta non bisognava scomparire come ogni giorno fanno gli immigrati in questo paese e che bisognava presenziare, rappresentare.
Ed essendo l'unica di questo parere, tutti concordarono in plebiscito che la rappresentante dovessi essere tu, ad andare e portare il loro avviso, senza che nessuno te l'avesse dato. A rappresentare tutti, senza che nessuno ti chiedesse di essere rappresentato.
Mentre arrivavi a Termini, ripetevi il discorso a memoria, come concordato con i ragazzi del centro sociale. Le due tre frasi convincenti, e le parole, che ti eri preparata erano ben fisse nella memoria. Cercavi di immaginare le facce delle persone che ti avrebbero ascoltato e te le immaginavi tutte come quella del concierge, cioè gonfie. Immaginavi, o forse me li sto immaginando io, la faccia di tutti quegli uomini: il segretario del consiglio comunale, qualche consigliere e una manciata di tecnici, più una troupe di giornalisti di un paio di agenzie e qualche testata, insomma, la faccia di tutti quegli uomini guardarti perplessi, non sapendo come prenderti.
Cercando il nuovo autobus hai controllato che la tua borsa fosse ancora chiusa e che la camicia stesse composta sotto la cintola dei pantaloni. Controlli come sei vestita per l'ennesima volta, anche ora che non puoi più cambiarti, e ripensi a quel giorno durante il tuo primo mese di lavoro, quando il concierge dalla faccia gonfia e sudata ti ha chiesto perché non ti mettevi il velo, Mara, perché non te lo metti il velo. Ti eri ormai abituata al nuovo nome che a Roma ti avevano affibiato perché erano troppo pigri per chiamarti come si deve, Rahma, senza invertire le sillabe (non dico metterci pure un'acca aspirata). Ti eri ormai abituata a tante cose, come il 105, ma quella domanda sul velo non l'avevi capita e non avevi risposto. Ma te ne saresti resa conto presto, cara Rahma, che gli italiani si aspettano da una donna marocchina (e l'equazione dice: quindi araba, quindi musulmana) che sia fedele, casalinga, sottomessa e col velo. E vaglielo a spiegare che le donne della tua famiglia, da generazioni, portavano i capelli sciolti, senza foulard, turbanti, cappelli, cappucci o altri copricapo d'ogni tipo.
Vaglielo a spiegare, vaglielo a spiegare, Rahma. Vaglielo a spiegare a questi uomini che non sanno neanche ascoltare le donne con cui si vedono da anni tutti i giorni. Vaglielo a spiegare a questi uomini che non sanno ascoltare. Vaglielo a spiegare a questi uomini che non hanno mai abbandonato la propria réception per paura di cambiare idea e di cambiare se stessi.
Ma sto parlando io, Rahma. Sto parlando ancora io, Rahma.