venerdì 29 marzo 2013

Storie di Negri, Storie da Bianchi: Django si è davvero liberato?



Prima di tutto, è così che i problemi si pongono a Mayotte [donna di colore] – all'età di cinque anni e alla terza pagina del suo libro: “Lei tirava fuori il calamaio dal suo banco e glielo scaraventava sulla testa, facendogli una doccia.” Era la maniera tutta sua di trasformare i Bianchi in Neri. Ma si è resa conto ben presto della vanità dei suoi sforzi; e poi ci sono Loulouze e sua madre che le hanno detto che la vita, per una donna di colore, è difficile. Allora, non potendo più annerire, non potendo più negrificare il mondo, cercherà nel suo corpo e nel suo pensiero di sbiancarlo.

Qualsiasi popolo colonizzato – cioè qualsiasi popolo in seno al quale è sorto un complesso d'inferiorità, a causa della demolizione dell'originalità culturale locale – si situa di fronte al linguaggio della nazione civilizzatrice, cioè della cultura metropolitana. Il colonizzato sarà tanto fuggito dal proprio pantano quanto più si sarà appropriato dei valori culturali della metropoli. Sarà tanto bianco quanto più avrà rigettato le sua nerezza, il suo pantano.

Frantz Fanon, Peau noire, masques blancs.

Guardando Django Unchained di Quentin Tarantino un paio di settimane fa al cinema, ho pensato a Fanon e alla sua maniera di descrivere la dominazione subita dal negro colonizzato. Certo, Fanon è un intellettuale e psichiatra e in Peau noire, masques blancs parla dei neri delle Antille e del loro rapporto alla Métropole, la Francia. Leggere Tarantino attraverso Fanon può essere in parte fuorviante.
Eppure, quando il Tedesco (ah, piccola nota: io ho una cattiva memoria; a parte Django, i nomi degli altri personaggi li ho dimenticati. Quindi siate comprensivi e accettate la semplificazione: il Tedesco è il (finto) cacciatore di taglie, Di Caprio è il grande proprietario terriero, il Servo è il servo di Di Caprio, etc.).
Quando verso l'inizio del film il Tedesco libera Django e gli dà la possibilità di scegliere il suo abbigliamento, Django, incredulo della possibilità di scelta che gli è stata data, si veste come un colonizzatore schiavista francese di un secolo e mezzo prima: velluto blu, bavero bianco. Di fronte a questa scena, Fanon mi è saltato alla mente e non ho potuto fare a meno di interpretare Django Unchained come un film sull'impossibilità di liberarsi da una dominazione totale imposta ad un gruppo, in questo caso gli schiavi neri.
Django è un gran bel film. Si spara e c'è violenza come in un buon western. Tanti morti, tutti ammazzati da un eroe per il quale simpatizziamo dall'inizio alla fine, quando trionfa. Per di più, la violenza in Tarantino è neutralizzata (quasi) totalmente: è splatter, non fa paura e la fotografia rende le immagini più vicine alle pagine di un fumetto che alle scene di un film.
In un paio di momenti, però, la fotografia cambia e la violenza inquieta realmente lo spettatore. Si tratta dei ricordi di Django che ripensa alla sua fuga con Brumhilde, alla cattura, alle sevizie subite. Quelle scene non sono più le pagine di un fumetto, ma delle scene quasi documentaristiche, come a dire: certo cari spettatori, noi qui ci stiamo raccontando una storia, una finzione, ci stiamo divertendo, ma ricordatevi che queste cose succedevano/ono davvero.
Django non è un film storico. Tarantino ci aveva già abituato a delle finzioni ispirate a degli eventi storici scottanti. Ed è, a mio avviso, su questo statuto di finzione storica (nel senso di sconvolgimento narrativo, fittizio della Storia) che bisogna riflettere. Tarantino prende degli eventi storici e li manipola, li stravolge, prende i vinti e gli fa compiere una vendetta violenta, catartica e spettacolare. Come piace a noi.
Invertire il corso della Storia attraverso la finzione è una maniera di riflettere sulla Storia. Manipolarla non significa immaginare come ci sarebbe piaciuto che andasse, ma rappresentare, cioè interpretare le dinamiche storiche e mostrarle. Una finzione storica, nel caso di Django Unchained, è un film che riflette sulla schiavitù dei neri negli States e prova a dirne le dinamiche. Insomma, questa finzione è un'astrazione, una sega mentale che, per una volta, non è noiosissima e ci tiene incollati allo schermo per tre ore. Roba paradisiaca.
Django non è un eroe negro. Se gli amici della negritudine avessero visto questo film qualche decennio fa, forse l'avrebbero criticato alla grande. E in molti l'hanno fatto oggi. Ciò che scandalizza è proprio il fatto che Django non riscatta i negri. La sua vendetta è tutta personale, egoista e individuale, come ha messo in evidenza un mio caro amico su un blog fighissimo. Django, anzi, decreta la morte di un altro negro. Pare proprio che voglia distinguersi dagli altri neri al punto che, prima di ammazzare il Servo alla fine del film, dice di essere quell'uno su mille negri a cui Di Caprio accordava l'intelligenza. In Django nessuno spirito di “classe”, cioè di “razza”. Sembra che gli stessi schiavi neri, vedendolo a cavallo, siano d'accordo con Di Caprio: se quell'uomo è a cavallo, o è un Bianco o il mondo va alla rovescia.
La divisione del mondo nel profondo Sud pare fatta così: ci sono i Bianchi e ci sono i Negri, gli schiavi, come c'è la Terra che gira intorno al Sole. Django non può essere il liberatore dei Negri perché il Negro condivide, interiorizza la dominazione che subisce, perché su quella dominazione si fonda l'ordine sociale, l'organizzazione del mondo in ascisse e coordinate, il posto che ognuno di loro (di noi) occupa nel mondo. È una dominazione che è incorporata da tutti, bianchi e neri, e che genera delle disposizioni insormontabili. Insomma, che un negro vada a cavallo fa parte della sfera dell'impensabile.
Il padre di Di Caprio avrebbe potuto morire, un giorno qualsiasi, sotto il rasoio di un negro che gli faceva la barba ogni mattina sotto il portico della villa. Eppure, lo schiavo non gli ha mai tagliato la gola. E perché avrebbe dovuto? Lo schiavo è schiavo perché non sa di essere schiavo. E non credere che questo non ti riguardi.
Il Negro, insomma, non può liberarsi in quanto Negro perché la dominazione che subisce è totale e non lascia spazio alla rivolta. Django, infatti, finché è un Negro non si prende nessuna libertà. La sua libertà è condizionata, prima di tutto perché è il Tedesco che gliela dà, anzi, che gliela vende in cambio dell'aiuto ad ammazzare quei tre farabutti le cui foto erano stampate sull'avviso di ricerca (falso). Ma, dopo quell'affare, Django proprio non sa come gestirla la sua libertà perché, in ogni caso, un posto per un Negro libero nel mondo in cui vive non è previsto. Quando allora il Tedesco gli propone di passare una stagione di caccia (di taglie) con lui, Django non è libero ed accetta. Sono i rapporti di forza che scelgono per lui.
È da questo momento che iniziano le peripezie di Django per giungere fino ai terreni di Di Caprio con lo scopo di liberare la sua Brumhilde. È da questo momento che Django comincia il suo cammino verso la libertà, in quanto eroe di una favola popolare tedesca e protagonista di una commedia teatrale di cui il Tedesco (e non Django) è il regista. E questo percorso di libertà è prima di tutto un percorso di sbiancamento. Django deve sbiancarsi. Va a cavallo, diventa un negriero, fa ammazzare qualche negro qua e là. Ma, soprattutto, Django impara a parlare come un bianco.
Fanon, nella seconda citazione, attribuisce una grande importanza al linguaggio. Il linguaggio è la dimensione principale in cui la dominazione del Bianco/dominante si esercita sul Negro/dominato (come ogni dominazione). Il Negro non ha altra scelta che quella di incorporare, interiorizzare il linguaggio del Bianco, la sua organizzazione linguistica del mondo. Per lui, ormai, la sola maniera di migliorare la propria condizione è quella di parlare come il Bianco, meglio del Bianco.
Il solo momento in cui Django si prende la sua libertà da solo? Pensateci un po'... Verso la fine del film, quando il colpo da Di Caprio è andato a puttane, il Tedesco e Di Caprio sono morti e lui è portato in catene verso una miniera. Come si libera? Non spara un colpo (cioè, fino a un certo punto). Django si libera con la parola. Racconta ai tre carcerieri che lo scortano la storia di una banda di criminali sulla cui testa c'è una taglia e che si trovano nella villa di Di Caprio. Tira fuori allora l'avviso di ricerca che gli aveva dato il Tedesco e aveva tenuto in tasca. Illustra ai tre allocchi la convenienza e la facilità dell'affare e li convince perché, come dice uno di loro, Django “parla come un bianco”.
E non solo parla come un bianco, ma addirittura racconta delle storie, delle finzioni come un bianco. Da protagonista diventa regista, come il Tedesco.
Ricordiamo che non solo il suo racconto ai tre sbirri è falso, ma lo stesso avviso della taglia è falso così come lo erano tutti gli avvisi del Tedesco. E questo gliel'aveva detto, a Django, lo scagnozzo di Di Caprio quando stava per tagliargli il pisello. Il Tedesco, un personaggio estremamente teatrale, gli aveva raccontato tante, tante storie, tante finzioni e l'aveva diretto in queste commedie.
Ora Django ha imparato a raccontare storie altrettanto bene, proprio come un Bianco, e forse meglio. È grazie a questa arte di raccontare storie che può prendersi adesso la propria libertà. Questo è un passaggio importante, meglio essere chiari: la libertà di Django passa dalla sua capacità di apprendere dal bianco la maniera di raccontare, di dire il mondo. Dalla sua capacità, insomma, di integrarsi (termine di attualità...).
Elaborare una finzione è la patente per la libertà. La dominazione non può finire se non all'interno del racconto che il Bianco fa del mondo. La dominazione, insomma, non è sradicata e non può esserlo. Tarantino sembra esserne convinto. Il suo film ci dice che la Storia dei Negri, la storia di una dominazione totale non può essere raccontata che nei codici dei narrativi dei Bianchi.
Come si racconta la liberazione di Django, con quali generi? Uno più evidente, gli altri meno marcati. Il primo è ovviamente il genere cinematografico del western. Il secondo, a cui si fa allusione ma che fonda l'intrigo di Django, è quello della favola tedesca: un eroe, una serie di peripezie e di prove che deve oltrepassare, la vittoria e il premio che, generalmente, consiste nella liberazione dell'amata. Il terzo, il teatro: Django è un attore al servizio del Tedesco, regista di una commedia continua.
Tarantino si è fatto una domanda: come rappresentare la Storia della dominazione schiavista? Quale margine ho, io narratore bianco, di raccontare una storia di uno schiavo nero? Tarantino si è risposto che questo margine di narrabilità non gli è concesso (salvo a voler fare un film come Ken Loach). Quel che ha potuto fare, invece, è stato riflettere sull'impossibilità di rappresentare la dominazione schiavista al di fuori di questa stessa dominazione. Ha riflettuto sulle possibilità che ha il linguaggio di rappresentare ciò che il linguaggio stesso, nella sua radicazione sociale, non permette di rappresentare. Rappresentare l'irrappresentabilità dell'impensabile. Insomma, Django Unchained è un film metanarrativo, anzi metanarrabile. Ed è, secondo me, soprattutto per questo che il film ci piace.
Siamo d'accordo con Tarantino oppure no? È possibile oppure no la creazione di un discorso che evada la dominazione e la rinversi? È possibile oppure no una rivolta, una rivoluzione?
Ciò che Tarantino sembra trascurare è la possibilità di qualsiasi azione collettiva. Il suo universo è individualista e non concepisce la solidarietà e l'associazione di individui. La prospettiva di Frantz Fanon è radicalmente differente, soprattuto ne I dannati della terra, scritto dopo essersi impegnato al fianco del Fronte di Liberazione Nazionale algerino durante la guerra d'Algeria (1954-62). Lo psichiatra di origine caraibica amplia la sua teoria per cui il colonizzato è dominato psicologicamente dal colonizzatore: la sola maniera per liberarsi da quest'ultimo è di ucciderlo, altrettanto violentemente quanto è violenta la dominazione coloniale. Questo processo violento di decolonizzazione non può essere che condotto collettivamente, al livello della comunità colonizzata. In effetti la dominazione è collettiva e solo collettivamente le si può sconfiggere.
Abbiamo bisogno di un Django che sia tutti noi. Quello di Tarantino, effettivamente, non lo è. È importante riflettere su un discorso comune, un immaginario condiviso che sia capace di ri-raccontare il mondo, di ricrearlo, di rimodellarlo per migliorarlo, insieme e in modo solidale, per ribaltare la dominazione di cui siamo schiavi senza saper leggerla.