domenica 17 novembre 2013

Appunti messicani: El Zócalo , i murales e lo spazio pubblico (parte seconda)


Come dicevo nel post precedente, l'impressione che ho avuto durante il mio viaggio in Messico è di uno spazio pubblico abitato da una società civile vivace; più o meno il contrario di quello che accade in Europa, dove degli spazi pubblici sempre più ristretti sono disertati da una società sempre più atomizzata. Ora voglio concentrarmi su uno degli aspetti di questa forte “pubblicità” (la parola qui è usata nel suo senso inabituale): la pittura murale.
I murales
Già, perché una delle cose che colpisce di più del Messico (e, credo, dell'America latina in generale) è la forte presenza di pitture murali, elemento che caratterizza il paesaggio urbano come quello rurale. Infatti, in Messico la pittura murale è uno dei mezzi di comunicazione più comuni. È forse più frequente trovare insegne di negozi o studi medici sotto forma di murales che “insegne” come le intendiamo noi, cioè pannelli o cartelloni con scritte sopra. Eccone qualcuna che ho fotografato:


Ma i murales servono anche ad altro, per esempio ad annunciare un concerto:

Oppure a fare della pubblicità (nel senso abituale):

Per decorare la parete di una libreria:


O, ancora, per fare campagna elettorale e comunicazione politica:

 

O, addirittura, minacce:


E ne ho visto addirittura uno di murales, in un piccolo paesino, che fungeva da “pubblicità progresso” per sensibilizzare le donne su alcune questioni della gravidanza. Ma era l'alba, eravamo stanchi e ho dimenticato di fotografarlo. Désolé.
Chiunque passi qualche giorno in Messico sarà confrontato numerosissime volte a questo tipo di murales. Potrà anche notare, in filigrana, dietro la pittura, i vecchi strati di colore, i vecchi annunci, ricoperti e sostituiti dai nuovi. Insomma, il murales è uno dei mezzi di comunicazione principali.
La cosa mi ha molto colpito, perché mette in questione la proprietà del muro. Un murales non è come un pannello pubblicitario installato con strutture in ferro e bulloni. Un murales è pittura stesa direttamente sulla calce. Penetra nel muro. Il muro, che serve a delimitare uno spazio privato dal resto del mondo, assume così un'altra funzione, che è quella di rendere pubbliche alcune informazioni. Il muro, strumento principale di separazione, si carica in realtà di un aspetto pubblico.
In realtà, la cosa non sarebbe molto interessante di per sé. Anzi, il mio discorso corre il rischio (molto etnocentrico) di idealizzare (a sinistra) una pratica culturale del, come si diceva una volta, “Terzo Mondo”. Del tipo: “Guardate, in Messico i muri sono di tutti!” Cazzate. Anche perché, come l'abbiamo visto, i fratelli Cola non hanno molte difficoltà ad appropriarsi di questa pratica per fare altro (nella fattispecie: del capitalismo!).
L'arte dei muralistas
In realtà, questo discorso sull'uso comune dei murales rivela tutto il suo interesse nel momento in cui lo si mette in relazione con un pezzo di arte messicana, dove si ritrova la pratica della pittura murale strettamente connessa allo spazio pubblico. Si tratta dei numerosi pittori e pittrici di murales che la storia dell'arte messicana ha conosciuto.
Sia chiaro: questo post non sta per diventare una dissertazione sull'arte visiva messicana. (Ne sarei incapace, visto che fino al mio arrivo in Messico non conoscevo altro che i nomi di Diego Rivera e Frida Kahlo e nessuno dei loro dipinti; ah, in quanto segue non parlerò neanche di Frida Kahlo). Piuttosto, vorrei mettere in evidenza, a partire da quanto ho visto io con i miei occhi a Città del Messico, due dimensioni di questa pittura: il carattere politico-rivoluzionario; e il carattere politico-istituzionale. [Ed ecco che, senza volerlo, faccio il verso al partito al potere in Messico: il Partito Rivoluzionario Istituzionale.] Insomma, piuttosto che di arte in senso stretto, qui proverò a fare una riflessione (di sinistra) sull'arte e la politica, due campi che sono in verità intrinsecamente legati.
Arte politico-rivoluzionaria
A Città del Messico ho visto alcuni dei murales dei cosiddetti tres grandes, i tre grandi muralisti del Novecento: Diego Rivera (1886-1957), David Alfaro Siqueiros (1896-1974) e José Clemente Orozco (1883-1949). Rivera, Orozco e Siqueiros, molto differenti l'uno dall'altro, sono i tre pittori della Nazione messicana post-rivoluzionaria. E sono pittori comunisti: non solo per il tema politico della loro opera, per lo stile moderno e espressionista della loro pittura. Ma soprattutto per il loro supporto: il muro. Questa è una pittura che parla al popolo e che chiama all'azione. La critica e la rivoluzione.
Basti guardare questo quadro di Rivera:
Diego Rivera, El hombre en el cruce de caminos o El hombre controlador del universo, 1934, potete trovarlo nel Palacio de Bellas Artes di Città del Messico.

L'uomo si trova al centro dell'universo, in una visione estremamente progressista, e da questa posizione deve scegliere quale strada seguire verso il progresso. Da una parte, c'è il capitalismo, con le sue guerre e la sua società borghese ben composta mentre la polizia (sullo sfondo) reprime le lotte sociali; dall'altra, c'è il comunismo (e Lenin), che rappresenta il proletariato e la via all'emancipazione dell'umanità. Cosa scegliamo? [Anacronismi... o no?]
Pensare che questo murale l'aveva commissionato Rockefeller per la sede della sua impresa, ma dopo averlo visto lo distrusse. Il pittore ne realizzò un altro, che è quello che si trova al terzo piano del Palacio de Bellas Artes di Città del Messico. A parte la provocazione al cuore del capitalismo mondiale, è interessante il carattere manifestamente politico del dipinto che è trasmesso senza nessuna mediazione allo spettatore.
Meno diretto, più espressionista, ma non meno politico è Siqueiros. Nel trittico Nueva democracia (1944-45), si celebra la sconfitta del fascismo e si inneggia alla libertà. Degli uomini sconfitti e avviliti simboleggiano le vittime della guerra e dei totalitarismi; mentre la forza della donna che esce da un vulcano impugnando la fiaccola della libertà è estremamente potente e vivificatrice, è portatrice di azione e inneggia alla lotta. Per non parlare delle sue tette (un'eredità del cubismo?):

Siqueiros, Nueva democracia, trittico composto da: Victimas de la guerra (in alto a sinistra), Victima del fascismo (in alto a destra), México por la Democracia y la Independencia (in basso), 1944-45, anche questo al Palacio de Bellas Artes.

Ancora, un altro murale fortemente critico è quello di Orozco, intitolato Katharsis (uno dei miei preferiti). Eccolo qui:

Orozco, Katharsis, 1934-35, al Palacio de Bellas Artes.

Armi, coltelli, fucili, tecnologia, delle prostitute (ridenti?), una testa sofferente, visi straziati dal trattamento espressionista, colori violenti, osati, uno sfondo di fiamme: una visione distopica di un mondo in disintegrazione, in cui la tecnologia sta violentando un uomo che annega nella massificazione sociale. Non ti turba?
Ed ecco l'idea orozchiana di elemosina:
Orozco, El alcancìa, uno dei murales del Colegio di San Ildefonso. Moltissimi sono i murales di Orozco sulle pareti dell'antico collegio, tutti politici.

Lontana dall'essere un reperto storico o museale, la pittura murale è tuttora il luogo di una critica sociale e politica. Lo testimonia questo murale, che si trova dietro l'Universidad de Sor Juana e che è statorealizzato non so da chi:

Un'arte politico-istituzionale
Ma quando si dice politica, si dice soprattutto costruzione politica, sociale, culturale e istituzionale. Il Messico post-rivoluzionario è un importante momento di (ri-)costruzione di un'identità nazionale. L'imperativo è rifiutare il modello dittatoriale francofilo (accentratore ed omologatore) imposto da Porfirio Diaz, quindi dare voce al popolo e, in particolare, alle differenti componenti del popolo, tra cui quelle più dominate, come gli indios. Serve una grande pittura, pubblica, che parli a tutti, che sia capace di riscostruire un sentimento d'appartenenza nazionale. Ed è per questo che la pittura de los tres grandes non è unicamente politico-rivoluzionaria, ma anche politico-istituzionale. È un'arte del popolo, ma il popolo (nell'ideale nazionale moderno, che non riguarda solo quello che chiamiamo “Occidente”) si identifica nello Stato-Nazione. Nel Novecento, in Messico, l'arte è il fulcro della costituzione identitaria di questo Stato-Nazione post-rivoluzionario.
I legami tra i tre pittori e le istituzioni non sono infatti deboli. I tre hanno ricevuto delle commissioni dallo Stato, ciò che da una parte gli ha permesso di sviluppare con ampi mezzi la loro tecnica, obbligandoli tuttavia a dialogare con un'altra dimensione della politica, del “pubblico”: non quella popolare, critico-rivoluzionaria, ma quella del potere statale. Qual è il confine tra le due?
La pratica artistica di Rivera è forse quella che più mette in evidenza questa contraddizione. È lui che ha dipinto i muri del Palacio Nacional rappresentandovi la storia del Messico, dall'epoca pre-colombiana ad oggi. Purtroppo non ho potuto vedere questi murales: il palazzo era chiuso come misura preventiva visti gli scioperi... Ma ecco comunque una foto di un pezzettino di questi, a quanto pare, enormi e magnifici murales:

Probabilmente Rivera, tra i tre, è quello che di più ha riflettuto a questo sentimento di appartenenza nazionale.
Letta in controluce e in comparazione con quello che succede da ormai oltre un secolo in questa nostra vecchia Europa, l'esperienza dei tra muralisti ci dice molto. Prima di tutto, ci ricorda che l'arte ha il dovere di parlare al popolo, dovere che troppo spesso gli artisti qui dimenticano, intrappolati nella loro arte autorefernziale, autoriflessiva sulla propria artisticità, sul proprio sogno di arte in sé, più o meno confessato. Intrappolati nella loro artecrazia.
L'arte deve essere pubblica, popolare, ci dicono los tres grandes.
Al tempo stesso, il legame tra i muralisti e la committenza statale finalizzata alla costruzione di un sentimento nazionale mette in luce i limiti potenziali dello “spazio pubblico”, quando questo diventa uno strumento del potere.
Infatti, lo “spazio pubblico”, che è stato il vero oggetto di questi appunti messicani, ha diverse coniugazioni. Il pubblico come partecipativo e popolare, ma anche il pubblico come emanazione di istituzioni rappresentative. Lo spazio pubblico tra democrazia e potere.
In Europa stiamo vivendo un momento in cui entrambe le declinazioni del pubblico, della politica (quella partecipative e quella istituzionale) sono in profonda crisi. Il loro peso nella società e nelle scelte che strutturano il continente è nullo. Da oltre trent'anni, il paradigma neoliberista per cui la società non esiste impera e ottiene i suoi frutti: la distruzione della società civile per far crollare la democrazia, la partecipazione del popolo al governo degli Stati.
Lo spazio pubblico, la società civile, la democrazia
Lo spazio pubblico messicano è vivo, molto più vivo di quello europeo e un'esperienza così forte come quella dei muralisti ne è la testimonianza. Eppure, la democrazia messicana, secondo i nostri canoni, ha l'aria di non funzionare molto bene: il PRI è eletto da oltre ottant'anni, a parte una breve (e recente) parentesi.
Nonostante le elezioni, senza alternanza non c'è democrazia. Eppure, la società civile messicana è viva e, chissà, forse riesce ad influenzare le decisioni governative molto più di quanto non lo faccia quella europea, il cui ruolo politico è ormai ridotto alla delega del potere ad una classe dirigente scollata dalla realtà, delinquente e sfruttatrice.
Lo spazio pubblico messicano ci mostra due cose: più superficialmente, in controluce, che la società civile europea è smorta; e poi che, più profondamente, la categoria europea di “democrazia” è da rimettere in discussione: questa, quando si limita alla sua natura (pseudo-)rappresentativa, non è l'espressione delle istanze di una società civile che partecipa concretamente al potere; può darsi che un governo non democratico dipenda dalla volontà popolare molto più direttamente di quanto non lo faccia un governo democratico, soprattutto in questa fase moribonda e degenerata della democrazia europea. Ecco qual è l'insegnamento che il Messico mi ha dato: che non c'è democrazia senza società civile.
E qui, in realtà, il Messico c'entra ben poco. Perché non è tanto del Messico che si è parlato in questi due post di appunti messicani, quanto dell'Europa.

PS: Non avrei mai potuto scrivere questo post senza le chiacchierate con tutte le persone che ho incontrato durante il mio viaggio in Messico. In particolare, grazie a: Amael (e la sua famiglia), Alvaro, Cristina, Delphine, Martin, Michael, Roberta, Tanquy.

domenica 10 novembre 2013

Appunti messicani: El Zócalo , i murales e lo spazio pubblico (parte prima)


Oltre un anno fa visitavo la città di Arezzo e rimasi stupito dal numero di piazze e piazzette presenti in città. Mi dissi anche che lo sviluppo delle città toscane durante il Basso Medioevo doveva essere legato in qualche modo a questo spazio, la piazza, che permetteva alle persone di realizzare delle attività sociali (dal lavoro al loisir) insieme, in comunità.
Ultimamente sono stato in Messico e il tema della piazza come spazio pubblico mi ha interrogato di nuovo, sin dal primo giorno trascorso nella capitale, il DF, come la chiamano i messicani. Il cuore politico e culturale della città e della repubblica messicana si trova nel Zócalo, la terza piazza più grande del mondo, circondata dal Palacio del Gobierno, dal Palacio Nacional e dalla Catedral. Questo spazio è intimamente legato all'identità del paese. El Zócalo è il simbolo del Messico e del popolo messicano e – la cosa più interessante – in quanto tale appartiene al popolo, alla gente. Certo, sui lati ci sono le istituzioni, temporali e spirituali, ma la piazza appartiene al popolo.
La piazza come oggetto di lotta
Ed è per questo carattere simbolico che El Zócalo si trova oggi al centro di conflitti e contese. Infatti, i messicani si stanno mobilitando fortemente in questo periodo. Il partito al potere (Partito Rivoluzionario Istituzionale – PRI; pardon per l'ossimoro) sta infatti varando alcune importanti riforme come quella sulla liberalizzazione delle fonti energetiche (il petrolio dovrebbe passare dalle mani dello Stato a quelle dei privati, da quanto ho capito) o come quella del sistema educativo (che anche si ispira alle più recenti riforme europee di spirito neoliberista). Ma i messicani non ci stanno e los maestros in particolare hanno deciso di protestare e mettersi in sciopero da ben tre mesi (italiano medio, rileggi bene quest'ultima frase: tre mesi, non tre ore). E ovviamente il centro dalla protesta era El Zócalo, occupato. La cosa ha piccato il governo che non si è fatto troppi problemi ad usare le maniere forti. Botte, botte, botte. Di quelle che fanno male. Dandogliele e dandogliele hanno cacciato i maestri dalla piazza (parliamo dei mesi di settembre-ottobre).
Intanto degli uragani stavano per portare la catastrofe sulle coste messicane, ma il governo, intento a reprimere e reprimere, si è – come dire – distratto, sottovalutando i rischi e dimenticando di mettere in atto delle strategie di prevenzione dei danni, che sono stati enormi. Vista la catastrofe, un grande movimento di solidarietà ha attraversato la nazione e il governo ne ha approfittato con una nuova idea: El Zócalo sarà il centro di questa solidarietà e la base per la raccolta di indumenti, viveri eccetera per le popolaizoni colpite dal cataclisma. Per los maestros, evidentemente, non c'è più posto.
Il governo ha riconquistato così la piazza, momentaneamente. Infatti, nel Zócalo era previsto anche un altro evento, la Feria del Libro. Per paura di mollare l'osso, il PRI ha deciso di annullare la Feria per lasciar spazio alla raccolta. Mica male l'idea, che vorrebbe mettere in scacco los maestreos: voler riconquistare El Zócalo avrebbe significato contrastare l'opera di beneficienza messa in atto dal governo.
La voce degli scrittori messicani, come quella di Paco Ignacio Taibo II, si è alzata per dirgliene quattro a quelli lì del governo, obbligandoli a spostare il centro di raccolta in un altro degli immensi spazio della capitale e riconquistando la piazza (degli scrittori che obbligano il governo a ritirare una decisione, che roba!).
Il risultato è che l'inizio della Feria è più o meno coinciso con il mio (nostro, non ero solo) arrivo in Messico. L'atmosfera di una domenica pomeriggio era positiva: tantissima gente, di tutte le età e classi sociali, si aggirava tra i numerosissimi stand di varie case editrici. In più, diversi forum erano organizzati. I dibattiti erano avvincenti. Niente a che vedere con i melensi, noiosi e autoreferenziali festival del libro europei. Già, perché lo scopo principale (e condiviso) di quei dibattiti era di esprimere solidarietà a los maestros e specificare bene che la feria non stava sottraendo loro uno spazio, ma lo aveva riconquistato, per restituirglielo. Così, la moderatrice del dibattito a cui ho assistito accusava, con tanto di indice puntato contro l'adiacente Palacio nacional, il governo dei suoi misfatti: politiche liberali, corruzione, controllo dei media, tutte tematiche che potrebbero trasferirsi (con tutte le differenze del caso) dall'altra parte dell'Atlantico.
Una società civile messicana
Ma quello che voglio mettere in evidenza è piuttosto l'atteggiamento con cui questi problemi venivano trattati; una chiarezza e una forte criticità contraddistinguevano il dibattito. E non solo da parte degli intellettuali (la parola è mia e serve a riassumere i vari casi di figura presenti al dibattito, principalmente scrittori e giornalisti) che intervenivano, ma anche e soprattutto da parte del pubblico, cioè della gente, che non era lì nella posizione di qualcuno che ascolta per imparare cose, per aspettare la parola riveltrice, di un Travaglio o di un Grillo, ad esempio. La gente era la sede stessa della critica e ritmava gli interventi con commenti, grida, applausi, ironie. Un pubblico numeroso e che reagiva, attivo e attento soprattutto al dibattito sulla strategie di uscita: che fare? Come creare un'informazione libera? Quali mezzi (Internet, una nuova televisione popolare)? Come ribaltiamo il potere in questo paese? Cose concrete insomma, non pugnette.
Cose pubbliche. Al punto che uno degli intellettuali ha dato vita ad un intervento direttamente in interazione con il pubblico, parlando di una starlette della televesione messicana (Laura Bozzo) che, oltre ad avere problemi giudiziari con il suo paese di origine (non so più se il Cile o il Perù), ha approfittato degli uragani per girare alcune immagini sensazionalistiche di lei in elicottero mostrando la catastrofe ai telespettatori. Ebbene, di quella presa in giro, di quella critica, di quell'ironia l'intellettuale non era il solo autore. Era nell'interazione, nello scambio di battute tra il pubblico e l'intellettuale che la critica prendeva forma: un momento in cui una comunità proponeva un riferimento comune e ne dibatteva, divertendosi, per apportare una critica più ampia (ai media specialmente).
È lì, in questa interazione a partire da riferimenti comuni, che ho avuto l'impressione dell'esistenza di una società civile messicana, che ha dei valori comuni di referimento, delle conoscenze di riferimento, e che in base a questi valori comuni realizza un dibattito sull'attualità (e non solo) che ha un senso. Senso che, invece, mi sembra mancare profondamente nel dibattito pubblico europeo, quando questo senso comune non si limiti all'indignazione e, d'altra parte, fatti salvi alcuni piccoli circoli generalmente ritenuti minoritari o estremistici. Esiste, in Europa e in Italia in particolare, una società civile? Saremmo pronti a fare un dibattito pubblico, sotto un tendone enorme, a piazza Colonna o Venezia, per esempio, criticando a voce alta i vari Vespa, De Filippi, Costanzo, Floris... Oppure ce li avremmo proprio sul palco?
La Lucha libre
Cambiamo argomento, pur restando su questa problematica del pubblico come sede di un'azione sociale. Passiamo però allo spettacolo. Uno degli sport/spettcaoli più seguiti dai messicani è la lucha libre, la lotta libera, una sorta di wrestling messicano. Sul ring, due squadre si affrontano. Da una parte i rudos, che non rispettano le regole del gioco e la cui brutalità non ha altro scopo che distruggere l'avversario e vincere. Dall'altro, i tecnicos, molto più corretti e onesti. Sui gradoni dell'arena, famiglie e bambini tifano tendenzialmente per questi ultimi, mentre impiegati sottomessi a una gerarchia durante la settimana tiferanno più volentieri per i primi. Le due squadre incarnano così due principi basilari della vita sociale: rispetto delle regole e del vivere insieme contro volontà di sopraffazione. I tecnicos, per fortuna, vincono più spesso. Ma in fondo tutti sanno che si tratta soltanto di una finzione e che le due squadre non si picchiano realmente: è uno spettacolo. E il vero protagonista dell spettacolo non sono i luchadores, ma il pubblico, che interagisce con loro, gli parla, li incita, tifa. E, soprattutto, lo show, il fatto che la lotta sia una finzione, permette al pubblico, alla società, di riconciliarsi, di riconoscersi in ambedue i principi, di mentenersi in equilibrio tra rispetto della vita sociale e egoismo. È, per così dire, una sorta di catarsi. È un'altra prova dell'esistenza di una società civile, di una dimensione pubblica forte nel popolo messicano, dimensione che continuerò a sviluppare nel post successivo, dedicato ai murales.
Un assaggino:
David Alfaro Siqueiros, México por la Democracia y la indipendencia, parte del pannello centrale del trittico Nueva Democracia, 1944-45, al Palacio de Bellas Artes di ittà del Messico. La libertà emerge da un vulcano e spezza le catene.

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