sabato 3 dicembre 2011

Il mio primo approccio con il conflitto israelo-palestinese

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Una donna dietro di me, francese, dalla parte dei palestinesi senza se e senza ma, diceva chukran al poeta Najwan Darwish e shalom allo scrittore Mosche Sakal. Il suo argomento, all'indirizzo dell'israeliano, Sakal, è stato: qual è la sua situazione rispetto alla leva militare? Ha mai partecipato ad azioni di combattimento, ha mai indossato la divisa, ecc.? Già, perché, dice Darwish (sempre Najwan, il jeune homme, non il defunto Mahmud), uno scrittore non è mai soltanto uno scrittore. Uno scrittore ha dovuto far parte dell'esercito, ha rappresentato e rappresenta, in un modo o nell'altro il paese, lo stato, Israele, il sionismo, l'occupazione. Nel 48 le proprietà della sua famiglia, di Darwish, sono state occupate e colonizzate da Israele. Darwish è nato in e vive in esilio, in una Palestina occupata. È figlio di un'espropriazione, di una colonizzazione. Viene controllato negli aeroporti, in quanto palestinese gli viene chiesto sistematicamente di spogliarsi per la perquisizione. Viene trattato come gli ebrei negli anni trenta. Parole sue.
Sakal ha raccontato di essere arabo, sua madre siriana e suo padre egiziano, di essere uno scrittore, israeliano. Parla in francese. Darwish parla in arabo, in un fussa che deve essere perfetto e pulito tanto che anch'io riesco a captare quelle due tre parole arabe che conosco: 'aydan, al-intifadat al-'arabiyya, al-kitab. Si fa tradurre da uno scrittore libanese, ma una volta ha voluto rivolgersi direttamente al pubblico e ha parlato in inglese.
Al pubblico e solo al pubblico. Perché Sakal non è sul piccolo palcoscenico della tavola rotonda. Non ce l'hanno voluto. Lo ha detto chiaro e tondo il moderatore che Sakal era stato invitato alla tavola rotonda sul ruolo degli scrittori dans le printemps arabe, ma che i tre (scrittori) palestinesi hanno posto il veto: non dialoghiamo con gli israeliani, non ci parliamo. Parlare con loro è come parlare con Israele, non parliamo con il bourreau, dialogo tra vittima e boia non è possibile, cosa volete, che il boia, dopo averci cacciato di casa e ucciso, quando viene e dice: parliamone, volete che gli diamo ascolto? Sappiamo che per voi francesi, parliamo francese, leggiamo i giornali francesi, conosciamo il vostro punto di vista, sappiamo che la nostra posizione è inammissibile, ma no, siete voi che non sapete capire il nostro, di punto di vista. E Sakal non c'è, su quel palco, interviene dopo, in quanto scrittore presente in sala, interviene. Un dibattito, un dialogo, per l'intermediario del pubblico, come un figlio che fa da portaparola tra due genitori in lite, un dialogo c'è.
Il libanese, il traduttore, dice: vorrei, je veux bien dialogare con un israeliano, con qualunque israeliano, ma prima di tutto alla condizione che condanni l'operato del suo Stato, e poi comunque non potrei, perché andrei in galera, in Libano è vietato ai libanesi d'adresser la parole a qualunque israeliano. Andrei in galera. E due anni fa lui aveva dialogato con un israeliano, dice il moderatore, ma giù dal palco, in privato, e per delle ore, una conversazione interminabile.
Stupide le motivazioni del rifiuto di un egiziano, Khaled el Khamissi, il primo a parlare (l'egiziano è palestinese o no? Mi rendo conto che non so neanche cosa vuol dire palestinese): non può esserci alcuna normalizzazione del dialogo con gli israeliani finché c'è il colonialismo. Le istituzioni letterarie egiziane rifiutano il dialogo, in blocco, io nel blocco rifiuto. Punto.
Una donna, francese, si alza, nel pubblico, e dice senza microfono che se ne sarebbe andata, non aveva voglia di ascoltare un dibattito con scrittori che non accettavano eccetera, non ho sentito. Altri si alzano, gruppi interi di persone si preparano per andarsene e la sala sembra volersi svuotare. Mi chiedo che cosa avrei fatto io. La curiosità mi teneva incollato alla sedia e poi mi sembrava ipocrita irritarmi per una questione che non mi tocca in prima persona, per la quale non mi sono mai innervosito. Olivier Gisbert interviene e invita tutti a restare, non ricordo più le motivazioni che dà, ma erano convincenti e la sala si riempirà de plus en plus. Allora interviene Tahar Ben Jelloun, toccante. Uno scrittore è uno scrittore, non è Israele. Molti scrittori israeliani sono dissidenti, essere uno scrittore è essere dissidente, non si può rifiutare di parlare con uno scrittore, con un essere umano in generale ma tra scrittori soprattutto, che a Marsiglia, per questa città, per quello che è, quello che rappresenta, si poteva. Non so più, non ricordo bene, non so riprodurre il discorso di Ben Jelloun, che mi ha commosso e fatto piangere.
Divieto di parlare, rifiuto di parlare. Guerra. Bourreau et victime. Distanza incolmabile. Nemici.
Post serio, scritto di getto, non controllato. Scusa.

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