lunedì 22 ottobre 2012

Conversazioni con Tarik

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Avevamo girato per un'ora e mezza, prima di raggiungere l'indirizzo della greca albanese. Avevamo fatto nove o dieci volte il giro intorno agli stessi rondpoint e alle stesse rotonde, prima di capire che lo Chemin du Vallon des Pins cominciava tra un albero di fichi e un muretto di calce e pietre, intersecandosi con un altro piccolo Chemin, da imboccare nella giusta direzione a livello di una fourche, raggiungibile attraverso la strada a destra della seconda rotonda. Seguendo alla lettera le istruzioni della proprietaria di casa, saremmo dovuti arrivare a destinazione senza problemi.
Accompagnare la greca albanese in quell'angolo di città che non pareva più città né Marsiglia, tra l'Hôpital Nord e il villaggio di Saint-Antoine, un paesino inghiottito tra l'autostrada e i casermoni popolari controllati ventiquattro ore su ventiquattro dalle sentinelle della malavita, ci era costato fatica e improperi contro chi aveva preso quell'indirizzo e l'aveva infilato nei nostri arrivi giornalieri. Ma io, che ero pagato all'ora, gioivo per ogni disguido.
Depositata la greca col passaporto albanese, Tarik era tornato di buon umore e si rivolgeva all'altro studente che scarrozzavamo a bordo della navette, Mehdi. Gli chiese sorridente come fosse attualmente la situazione in Tunisia.
“Abbiamo fatto la rivoluzione e ne hanno approfittato”. Come sempre, le rivoluzioni non le vincono mai quelli che le fanno. Ma non dissi nulla, perché la massime sono per i saccenti che vorrebbero poter insegnare la Storia.
Tarik si chiese ad alta voce com'era stato possibile, come mai anche i tunisini, loro che sono più istruiti e dotti degli algerini, ci erano cascati e avevano votato quel partito che si chiama la Nahda, cioè la Rinascita, con quei volantini blu che avevo provato a leggere negli snack-bar del quartiere Saint-Charles. Ma nessuno fece il nome del partito e Tarik parlava genericamente dei “barbuti”. “Gli islamisti?”, gli chiesi io. Lui si difese e disse che non sono buoni musulmani, quelli. “Il musulmano al limite non fa politica, cerca di fare tutto il bene possibile e di non fare il male e non si occupa di politica, se vogliamo. Quella è gente che si serve della religione per fare i propri sporchi interessi. Non sono islamisti”. Io mi giustificai, in silenzio, raccontandomi la favola che per me “islamista” non significa musulmano, ma un certo tipo di discorso interno all'Islam che reinveste la religione in politica. Ma forse dovremmo smetterla di tirare sempre in ballo Maometto e provare a capirci qualcosa.
Mehdi li chiamava “estremisti” e disse che avevano vinto le elezioni nel sud del paese, dove la gente è ignorante e affamata. Il ricatto clientelare è la campagna elettorale più efficace. Io pensai alla Democrazia Cristiana, ma non dissi niente: anche spiegare gli eventi attuali di un paese tramite la propria storia nazionale è saccente, presuntuoso e colonialista. Tarik pronunciò una frase in arabo di cui capii soltanto l'ultima parola: “bled”, che significa “paese”, anche in francese.
Intanto il traffico ci teneva fermi davanti a un semaforo che diventava verde raramente e per pochi secondi. Chiesi a Mehdi se era di Tunisi e mi rispose di sì. Dovetti dirmi che quel ragazzo universitario, con gli occhiali e un corso di studi al politecnico da seguire, aveva fatto la storia del suo paese e che la storia del suo paese l'aveva tradito. Mehdi mi sembrava disgustato. Chiese a Tarik se anche in Algeria qualcosa si stava muovendo, ma un paese che ha vissuto un guerra civile decennale, finita qualche anno fa, sente ancora l'odore di sangue nelle narici e la paura di perdere un fratello, un figlio o la vita. E un popolo che ha paura non fa rivoluzioni.

A Marsiglia c'è sempre traffico e a me e Tarik piace parlare, anche quando non si ha nulla da dire. Parliamo spesso di politica, o di qualcosa che ci si avvicina, e generalmente ci raccontiamo come tale presidente o tale legge ci sta fregando e che se i politici fossero un po' meno stronzi, il mondo sarebbe un posto migliore.
Ogni volta che ci imbottigliamo in una coda di automobili io penso al mio salario ad ore e immagino una colonna di monetine d'oro che cresce, come in un fumetto o in un cartone animato. Tarik intanto mi spiega che all'alba del decennio nero, i generali facevano e disfacevano milizie armate con il compito di rubare, razziare, vandalizzare e ammazzare. Chiama questo esercito informale “les faux barbus”, “i falsi barbuti”, che dovevano rovinare la reputazione dei veri barbuti, quelli del Fronte Islamico della Salvezza, a cui il governo non voleva lasciare i poteri, nonostante lo schiacciante risultato elettorale. Un strategia della tensione che era stata descritta da un generale in esilio in Germania, che ha abbandonato i gradi e usato le parole al posto delle armi in un libro di cui ho dimenticato il titolo.
Io penso a Cossiga e a quell'intervista che avevo letto qualche anno fa in facoltà, alla Sapienza, prima che lui morisse. Raccontava impunemente come avesse provocato la morte di quella ragazza di cui non ricordo il nome, all'alba degli anni di piombo, su un ponte sul Tevere. Lo racconto a Tarik, che si scandalizza. Ci ripetiamo che “l'homme est mauvais”, più volte ce lo diciamo e finiamo anche per riderci sopra, che “l'homme est mauvais” e non possiamo farci niente oltre al nostro bene quotidiano.

Mentre Tarik sta cercando di mollare il suo lavoro di autista per farsi assumere da un'impresa francese che smonta l'amianto in una zona industriale del Ciad – lavori tre mesi, poi torni per un mese, poi riparti e così via, ben pagato –, dei cittadini libici hanno fatto fuori un ambasciatore americano a Benghazi. A scatenare la violenza, in Libia e anche altrove, pare sia stato un film statunitense intitolato, questo me lo ricordo, “The Innoncence of Muslims”.
Alla favola di un Islam che si ribella all'Occidente in seguito alla diffusione del video ci credo poco. Quando Tarik mi chiede che ne penso, gli racconto che la sera prima ho guardato un pezzo del film su Telesur, la televisione del dittatore Chavez, che mi tiene aggiornato anche su qualche lotta operaia italiana. Gli dico che il film è un'americanata, con degli uomini in djellaba che entrano in appartamenti e distruggono tutto. Gli riferisco anche che il film è stato finanziato da un centinaio di ebrei. Tanto per fargli capire da che parte sto, dico che non arrivo a dire che quei libici hanno fatto bene, ma che con un film del genere mi fanno davvero venir voglia di urlare che hanno fatto bene ad ammazzarlo, l'ambasciatore, e che ne ammazzassero anche qualcun altro, santo cielo. Tarik mi dice che nel Corano c'è già scritto tutto e che dopo la vita c'è la morte, e dopo la morte tutto si capovolge: chi ha fatto il male lo riceverà, e viceversa. Non so perché non penso a Gesù, ma avrei potuto. Penso invece che gli insegnamenti delle differenti religioni sono spesso molto simili e generalmente positivi.
Per non deprimerci, smettiamo di parlare di politica, o di qualcosa che ci si avvicina, e cominciamo a parlare di cibo. A quanto pare in Algeria tutto è bio e la famiglia di Tarik coltiva il tartufo, così tanto che quando lui va a trovare i parenti se ne torna a Marsiglia con delle cassette talmente piene che finisce per buttarne. Tornando a casa mi chiedo qual è questo tartufo del deserto né nero, né bianco, ma marrone, un po' bastardo, che nel sud dell'Algeria si coltiva a palate e che il mio collega vuole offrirmi al prossimo viaggio di ritorno.

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