martedì 30 ottobre 2012

«Moineau», una traduzione

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Traduzione di un brano tratto da Moineau (Aden, 2012; pp. 77-80) di El-Mahdi Acherchour, scrittore algerino di espressione francese. Chi parla è Labbé che, mentre guida il suo autobus, racconta gli avvenimenti passati del suo paese, Tizinda, ad un viaggiatore. Una sintassi particolarmente tesa e le numerose ripetizioni di un lessico scarno sono le caratteristiche stilistiche attraverso le quali l'autore ricerca una narrazione della Storia del suo paese. Il romanzo non è stato tradotto in italiano.
NB: non sono un traduttore. Questa è la prima volta che traduco (per divertimento) un testo. Non sono stato capace di trovare altra soluzione che una traduzione abbastanza fedele all'originale per restituire l'opacità propria di questa prosa. Ho evitato qualsiasi esplicitazione, per lasciare intatto quell'elemento di estraneità che il testo mostra.

Era proprio un sabato mattina e non era ancora mezzogiorno: non potevo dimenticarlo. Il sindaco è già venuto in paese diverse volte. Diverse volte alcuni testimoni, non più di una decina, l'hanno visto al centro, in piedi di fianco a quel pupazzo di monumento che rappresenta un martire ignoto del paese, eretto come un volgare palo verso il cielo e Dio sa cosa; il sindaco, sin dalla prima metà del suo primo mandato, l'aveva concepito e piazzato là, alla gloria dei Dieci Martiri del nostro glorioso paese per metà in rovina a causa della guerra e per metà abitato, secondo il padre di Mahrez, dai poteri invisibili che anche lui chiamava angelici; ma questo monumento che aveva inaugurato lui stesso l'inverno scorso in fretta e furia perché pioveva forte, non poteva ottenere dal cielo quel che volevamo in paese: non aveva nevicato, quest'inverno, né l'inverno successivo – un cattivo segno, tutto questo, mi dice il padre di Mahrez lo stesso giorno.
Signore, non potrò dimenticare tutto questo. Adesso il monumento, lo sprezzato monumento che le giovani generazioni non senza ironia chiamano latoriffel, non ne è quasi più uno, è quasi completamente sciolto il pupazzo, deformato, sfigurato, ai cui piedi si possono ancora leggere i grossi precetti della nostra giovane nazione introdotti da un grosso bismillah-i-rahmane-i-rahim.
Al centro del villaggio allora, diverse volte, potevamo vederlo, il sindaco, grande come due uomini, scortato dai suoi uomini, due civili ben vestiti e altri due in uniforme; potevamo vederlo, il sindaco della baladia, sempre più disprezzato che i giovani chiamano Deux Gaulle alzando al cielo le due mani o a volte con le braccia, come lo vedevo io da sempre, stranamente felice, pallido e pauroso, come se s'aspettava di essere fucilato o decorato dal suo superiore o le due allo stesso tempo.
Mi ricordo ancora il giorno in cui era venuto, per tutt'altro; non era ancora mezzogiorno; non potrò dimenticare tutto questo, signore. Dietro di lui, c'erano solo delle persone come me e Tayyeb per ascoltarlo; lo ascoltavamo insieme, ci annoiavamo insieme, e ce ne andavamo insieme dritto dritto per andarci a sedere davanti Tayyeb, da Tayyeb, per ascoltare qualcos'altro, delle storie millimetrate, più vicine a noi tutti insieme, più ridenti, fino al tramonto; non era ancora mezzogiorno.
Questo resterà un paese libero, quindi nuovo, dice una voce davanti a me. Tutto il paese è nostro adesso. Era quella di Tayyeb, e subito a aggiungere: «e anche dei nostri antenati».
Niente di nuovo, vecchio mio, anche le capre di Touchent sanno quello che hai appena belato, gli ribatté il più annoiato di tutto l'insieme mentre spostava la sua sedia al centro.
Ero io, signore, e io adesso mi ricordo che era un sabato mattina al di fuori del tempo; la neve, adesso potevamo dimenticarcela, mi dissi pensando al padre di Mahrez.
Era questo sabato là che era venuto per un'altra cosa, il sindaco: non potevo dimenticarmelo. Si mise al centro – in seguito veniva da solo, felice a stento, ma sempre altrettanto venato, pallido e pauroso: un cattivo segno –, sempre al centro, davanti al negozio di Tayyeb, per riunirci a decine e predicare con una voce che, per metà di piombo, per metà persa in una confusione che potevamo sentire come una specie di balbuzie, penava a penetrare le nostre orecchie e le nostre anime religiosamente ordinate davanti a lui come potrebbero essere quelle dei nostri antenati davanti all'Antenato, il Santo, il Balbuziente. Ogni sabato, aveva queste parole per concludere il suo lungo discorso che poteva introdurre soltanto con le stesse parole, non balbettando ma vociferando stranamente: In città, in tutte le città, pure nelle prigioni, non ne vogliamo, non ne possiamo più di gente come voi, per Dio!
Gliele avevo già sentite in bocca quelle parole, qualche sabato prima, l'ultima primavera, nel suo ufficio dieci volte più grande della mia stanza, dieci volte più pulito del negozio e di tutta la baladia di cui voleva fare una sempiterna primavera. Se ne stava là, immobile e attonito della propria confusa presenza, come se non fosse mai stato là, in quest'ufficio totalmente suo, per metà piombato nel silenzio, per metà perso nella confusione più totale e totalmente distante da noi, dal suo reame e dal tempo.
Sono qui per un'altra cosa, signore, dissi. Sono qui per la storia... Non avevo finito di dire quel che volevo dirgli una volta per tutte quando all'improvviso un braccio mi spingeva verso la porta. Era quello dello stesso sindaco, forse disturbato dalla mia presenza e da tutto ciò che io rappresentavo. Confesso, signore, che avevo una faccia che non ricordava la primavera. Adesso capisco il sindaco al quale avrei dovuto dire prima di uscire: ho capito bene, signore, ho capito proprio tutto. Uscendo pensai: ho proprio capito, signore, ho capito tutto.
Nel suo ufficio, mi resi conto improvvisamente dell'interesse che aveva per me negli ultimi tempi, tanto da accordarmi ora il privilegio ufficiale e intimidatorio di avercelo faccia a faccia nel suo ufficio, tirato a lucido, dominato dalla presenza dell'immensa bandiera della nazione e dell'immenso ritratto del suo fondatore, l'emiro Abd-el-Kader; c'ero ancora, fianco a fianco con lui, comme lei e me adesso, signore. Penso che credesse che ero ancora ascoltato a Tizinda – questo era sicuramente un po' vero prima, e potrebbe esserlo ora se io non avessi scelto di di disfarmene, staccarmi da tutto, mettermi in disparte per ritrovarmi dalla parte del linguaggio dei motori e altri pezzi staccati – e che potrei convincere i miei, gli asini, i cocciuti dalle orecchie incrostate di terra e di vento e che adesso non ascoltavano più nessuno, neanche colui che saprebbe disfarsene per fare il Santo, l'Antenato, il Balbuziente.
Nostro, il paese, diceva il povero Tayyeb. Nel momento in cui stavo per uscire per respirare finalmente l'aria, in disparte da tutti quegli uffici dall'odore di scartoffie e candeggina, ho sentito la voce del sindaco che gridava: «Se non vogliono più starmi a sentire, digli almeno di stare a sentire quello che t'ho detto e stare a sentire quello che mi dicono un po' ovunque: la gente come voi...» Non è riuscito a raggiungermi, il Deux Gaulle, con i suoi due metri e le sue duemila porcherie. Ripetendomi quel che mi aveva detto, ho capito bene e ho pensato: lo so che non è gente PER BENE, come la primavera, ma io, signore, sono venuto per un'altra cosa, sono qui per la STORIA, quella dell'altro animale, il nuovo bus che non ho ancora visto e che vorrei riuscire a vedere e a guidare un giorno; ma ora si direbbe che lei mi ha già dimenticato, signore.

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